21 aprile 2006

Amore e follia

(...) Ma Amore è anche figlio di Poros, la via, il passaggio, il guado. E perciò concede alla follia che ci abita il suo transito. Questa, irrompendo nell' ordine dei significati che l' io razionale ha costruito per espellerla, produce quel controsenso che denuncia la maschera eretta sull' elusione della follia. E qui la direzione del discorso si lascia intuire: Amore non è godimento di corpi, Amore è molto di più. Occupando «il posto intermedio tra l' uno e l' altro estremo», Amore si fa interprete (ermeneuei) tra la ragione che l' uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita. Non quindi un rapporto tra uomini come si è soliti credere, ma tra la parte razionale dell' uomo e la sua parte folle o divina. Ma che ne è dell' io e dell' altra parte di sé quando Amore li accoglie? Che ne è dell' uomo e del dio quando Amore li interpreta? Se Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con l' altro, quanto una relazione con l' altra parte di noi stessi, quindi un cedimento dell' io per liberare in parte la follia che lo abita, Amore ha a che fare con quei limiti ontologici che sono per l' esistenza la nascita e la morte. Morte dell' io per dissoluzione dei suoi confini, sua rinascita in nuove configurazioni. Questa oscillazione, che ogni atto d'amore porta con sé, ha bisogno della presenza dell' altro come memoria della realtà che si lascia e come possibilità di ritorno dal mondo estraneo a cui ci si è concessi nella dissolvenza dell' io. L' avvinghiarsi al corpo dell' altro, prima di un contatto, è dunque una presa. Per il solo fatto di esserci accanto, l' altro ci concede di perderci nella nostra follia e di riprenderci. Assistendo al cedimento del nostro io, con la sua presenza, come la levatrice durante il parto, l' altro aiuta la nostra nascita.
(...)Chi tocca questa follia ci affascina e ci induce a quel progressivo cedimento di noi stessi che rende possibile la liberazione di quella follia di cui si contorna Amore, dove il senso gioca col non-senso e dove non si dà nuova parola se non liberando a ogni istante l' antica follia. Così Platone erge Amore a simbolo della condizione dell' uomo «a cui però non è concesso distogliere l' occhio dal proprio taglio». E questa è la ragione per cui Amore non è solo vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta.



Umberto Galimberti: Non siamo padroni di dire ti amo
Tratto da "la Repubblica", 30 agosto 2003