02 ottobre 2006
UN FILO D'INDIA: Acqua e fuoco, vita e morte.
20 agosto. Sveglia 4,30. Scatto in piedi. L'abito bianco è pronto sulla sedia, insieme all'essenziale kit: macchina fotografica, zoom e rotolini. Giusto il tempo di lavare via il sonno dagl'occhi, e di una colazione frugale a base di biscotti e nescafé. Quest'assenza di caffeina è tremenda quanto la mancanza di sani distillati in questo Paese.
Il Gange ci aspetta. Ganga, Mi aspetta. Non posso negare di essere qui per lui, per lei, per l'acqua. Ho un'attrazione forte per l'acqua, per la sua leggerezza e la sua forza, per come fluisce e come si ferma, per come evapora e come ritorna, per il ciclo che rappresenta, per come ti accoglie e ti annulla, tenendoti a galla, inerte. Molti dei miei amici, prima che partissi, si sono affannati nel ripetermi di non metterci nemmeno un dito del piede nel fiume. L'acqua è inquinata e noi occidentali non abbiamo sufficienti anticorpi. Ieri un ditino della mano l'ho messo però, con una certa paura devo dire, ma come potevo non toccarla? Poi non sono andata oltre, riesce ad incutere una certa soggezione, come tutta la città d'altronde.
In un gruppo assai ristretto, siamo arrivati al solito Gath della sera prima, il Dashashwamedha Ghat e abbiamo preso una sola barca.
Oggi doveva essere il giorno del mio battesimo e se Maometto non va alla montagna allora...
L'acqua è arrivata, ma non è stata un'immersione, è stata un'abluzione dal cielo. La pioggia. Quest'elemento di vita liquida ci ha accompagnati in tutto il nostro tragitto sul fiume. Nessun ombrello, nessun cappello poteva proteggermi da questo bagno rituale. L'abito bianco assorbiva e tratteneva, imprimendosi delle forme del corpo. Tutto era acqua.
Siamo scesi per il verso della corrente, seguendo la riva destra, la stessa dal quale ci siamo imbarcati. Siamo passati rasenti ad un tempio parzialmente allagato. Incuranti i fedeli procedevano nelle loro offerte di devozioni ed avviavano i riti della mattina, le abluzioni. Il fiume in piena, la pioggia e la giornata festiva - oggi è domenica! - ci hanno impedito di assistere a quell¹arcobaleno di colori da cartolina che è la Città in una alba di sole. Ma la magia non è sopita. Pulsa in questo grande bagno a cielo aperto che è Varanasi, nella naturalezza con cui le persone si lasciano osservare seminudi, nell'acqua che scorre grigia, carica e veloce. Tutto questo è il rito della vita che l¹acqua porta con sé, a Varanasi.
Dalla vita, con naturalezza si passa alla morte. A valle del fiume incontriamo l'Harishchandra Gath, con il crematorio elettrico, con i sui quattro pilastri piantato nel fiume. Sembra un fuori scala, una misura più grande, per fatiscenza e fascinosa inadeguatezza tecnica, delle centrali elettriche del nostro Appennino ligure. Con una manovra di forza, i muscoli dei rematori indiani, ci portano a monte, risalendo la corrente. È un percorso a ritroso, una lunga coda di barche di curiosi voyeur di un altro continente.
Non ci vuole molto per vedere le prime fiamme. Nonostante la pioggia, la morte non si ferma. Il Manikarnica, il gath delle creamazioni è in pieno funzionamento. Cala il silenzio, o forse sono io che non sento più niente, solo acqua e fiamme, vita e morte.
Mi sono trovata in faccia anche la morte in questa mia ricerca dell'acqua. Sapevo che Varanasi è una città sacra dove ogni indù desidera morire per la vicinanza al Gange, sapevo dell'aria densa di religiosità, di questa Gerusalemme dell¹hinduismo, ma non avevo ancora chiaro se io cercavo qualcosa da questa accettazione della fine.
Riusciamo ad attraccare, ma l'acqua alta ci obbliga a scendere velocemente. La città è indicata, a ragione come tra le più sporche dell'India. una grande mucca nera e qualche topolino ostacolano il nostro passaggio. Rimpiango subito le mie scarpe da ginnastica. Scatto qualche foto a quella fiamma ipnotizzante che parte dall¹alta terrazza e conversa il cielo, con le sue lingue biforcute, incuranti della pioggia, del fiume in piena o della vita dell'uomo. Ci avviciniamo e saliamo sulla terrazza. Il fiume ha mangiato le zone di sosta e sono costretti a farci salire costeggiando le pire, quelle accese e quelle che devo ancora bruciare. È un momento unico, incredibile, insperato. Le fiamme, la pioggia. Nessun rumore, nessun odore, niente doloro. Ci disseminiamo alle balaustre, 30 cm massimo dalla fiamma. Otto pire. Vari stadi di combustione, la prima era già cenere e tocchi di legna, l'immediata vicina conteneva ancora un abbozzo di salma, le altre avevano ancora materia con cui alimentare le. Ma la nostra attenzione è stata catturata dall¹unica che ancora non ardeva. Il figlio, commosso ma serafico, stava completando il rito funebre. La salma era coperta da un sudario bianco, un uomo se non ricordo male. Il figlio, un brahamana magro, vestito con il classico tessuto legato a mo' di braghe, cospargeva il corpo piccoli legnetti, incenso e burro. Fatti i tre giri rituali, gli è stata passata la fascina con il fuoco sacro, attinto dalla perenne fiamma del pozzo sacro di Shiva. Avrei potuto fare le foto, Massimo mi copriva con le sue spalle. Ma non me la sono sentita. Ho voluto portare rispetto al dolore, ma più che altro a questo grande gesto che é l'accettazione della morte.
Io non pensavo di giungere così oltre. Volevo vedere il Manikarnica, era una delle tappe obbligate del mio viaggio. Mai avrei pensato di poter assistere ad una cosa del genere. È brutto da dirsi in merito ad un rito funebre, ma è stato davvero uno splendido ed unico spettacolo. La capacità che cercavo di staccarmi da questo convulso desiderio di essere materia.
La gioia era tanta che avrei voluto buttare le braccia al collo al nostro Guru, ma il ritmo delle nostre escursioni non permette smancerie per cui occhio a dove metti i piedi e avanti! Quando indicano questa città come quella dove le mucche fanno i lori sporchi comodi con la maggior tranquillità, è vero. I vicoli sono stretti, come nella nostra tradizione medievale, affollati e brulicanti di personaggi e merce. Camminiamo su una malgama di polvere, merda ed acqua. Superato il primo contatto, tutto sembra normale.
Visitiamo il Golden Temple, ovvero ci facciamo palpare e abbandoniamo i nostri averi ad una scatola di cartone da un negoziante lì vicino per salire su una terrazza a mirarlo dall¹alto, con le sue cupole d'oro e le sue scimmie. È un tempio per soli indù, non ci è concesso entrare.
Ritorniamo a piedi verso l'autobus, non c'è sole, ma il mio umore è quello di una giornata di primavera, dove le nuvole corrono gonfie e veloci nel cielo, dove il sole riscalda e non scotta e la mente è aperta all¹estate. Io non so descrivere il benessere e la naturale pace che mi ha dato questa visita. Io mi sentivo a casa per quelle strade, in quella realtà urbana così poco ospitale, cruda, sentivo un po' dei nostri viuzzi squallidi, la mia Genova o la nostra Napoli, la Bari di Rubini o le calli del mercato di Venezia. Un po' più dentro a questa concezione spirituale del mondo e della vita.
Non è stato il luogo di tutti i luoghi, ma c'è andata molto vicino.
Tornati in albergo, attuiamo il piano "colazione con assideramento". Sarebbe stato troppo intelligente andare a togliersi quell'abito fradicio e gustarsi la compagnia e il cibo con addosso qualcosa di pulito e asciutto. Ingorda come sempre, tutto e subito, sono rimasta in canottiera nella condizionata sala da pranzo a testare quanto il mio fisico possa resistere prima della broncopolmonite. Per fortuna che ho una pellaccia.
Non erano nemmeno le 9.00, ma per me la giornata poteva essere conclusa, e le mie aspettative dall'India esaudite completamente. "Varanasi ha risposto", e ci ha dato molto di più di ciò che aspettavamo. Il sole è sorto due volte oggi. Ancora un nuovo giorno.
Segue...