7 agosto 2006. Addio Udaipur. Post colazione, rito della sigaretta. Non cerco il gruppo, questa la fumo da sola… fuori dall’albergo non darò mica scandalo. Il posto è assai dignitoso, l’odore d’india tradisce un po’ troppo mah... L’albergo è rintanato dietro un anonimo parcheggio, poi si apre un piccolo ma curato giardino con piscina che pare finta, tutto cinto da mura. Dietro c’è l’acqua, quel lago che vedo dalla finestra. Il mio primo panorama indiano . Saluto il tipo che apre e chiude la porta. Qui la manodopera non deve proprio costare niente. Questo sta fisso ad aprire e chiudere la porta. Mi fermo prima del giardino e accendo. Cerini. Nel volo di avvicinamento Mumbay Udaipur m’hanno rapinato degli accentini. Tempo due tiri, ecco uno dell’albergo con la gabbannella grigia che mi chiama e mi indica di seguirlo, mi porta verso il muro di cinta. Ovviamente non capisco una mazza, ma cosa mi può fare mai?! Stuprare di prima mattina?! … mi porta a quel piccolo ghat che ho zoommato dalla finestra. Non ci posso credere?! che mi si legge in viso che sono in India a cercare acqua?! Apre l’arcaico lucchetto e mi concede i gradini. Lo ringrazio portado le mani giunte al naso e mi sistemo appollaiata sulle scale a guardare l’acqua, fumando la prima gustosa sigaretta di questo secondo giorno indiano.
Saga dei bagagli, autobus stipato e via! Prima destinazione Monte Abu. Il Touring dice che è una località di villeggiatura per gli Indiani in viaggio di nozze, panoramica, su di un cucuzzolo degli Aravalli, 1200 mt, domina diversi laghi. Noi andiamo a vedere un complesso di tempi jaina. Il viaggio non è affatto breve e nemmeno agevole, dopo un tratto in piana si sale e i tornanti sono ripidi e numerosi. Mi domando se l’autobus ce la può fare. Certo non è un ultimo modello ma si presta bene, l’aria condizionata è rotta ma per me è ottimo. Odio quell’aria preconfezionata che ti schiaccia il sudore addosso e ti mina la gola. Qualcuno si lamenta, speriamo che non trovi forza. Prendo posto nel penultimo sedile sulla fila di destra. In fondo in fondo, é troppo a discola e poi oggi è pieno di bagagli. Ho trovato un paio di buone posizioni, scalza a mezzo loto oppure con i piedi appoggiati al finestrino, riesco alternando queste sedute ad uscire indenne dalle 4 ore di autobus. Per fare 30 km in india ci vuole quasi un’ora. Le strade sono a tratti asfaltate e tratti che ti sembra di essere in mezzo ad un campo. Quando passa il monsone cancella ogni riferimento delle strade bianche, rimane che confidare nell’autista.
Appena arriviamo a Monte Abu scatta il monsone, inizia a piovere in modo assai interessante, intenso e continuo. Ci attrezziamo, cappello, k-way. Siamo fradici ugualmente. Procediamo bagnati, la temperatura lo permette. Non possiamo portare niente dentro. Lasciamo gli zaini al guardaroba… non è proprio come quello delle discoteche ma il numerino c’é. La guardia all’ingresso prende in disparte il nostro leader e gli parla ad un orecchio. Pissipissibaubau. Lui fa cenni di assenso, ride. Lo avevo letto sulla guida, non possono entra al tempio le donne durante il periodo mestruale. Sfidiamo il controllo e procediamo scalzi. Il marmo liscio a piedi nudi non è u’impresa da poco. Capo basso, baricentro pure e “dove s’entra?!” Un po’ a fatica troviamo l’accesso al primo tempio del complesso. Molto simile per decorazioni al precedente di Ranakpur ma diverso per planimetria. Più piccolo e definito presenta un portico che corre tutto lungo il perimetro quadrato; sul lato esterno sono disposte delle cellette mentre il lato interno, colonnato, si apre su un cortile che contiene il santuario centrale. Questo é collegato al portico perimetrale da più sale colonnate sormontate da splendide cupole decorate mandapa. Il marmo bianco risplende anche alla debole luce della giornata di pioggia, la decorazione è fitta, sembra un edificio di cioccolato bianco o burro scavato in modo convulsivo. Ci stupiamo dei fregi del soffitto, un grande fiore di loto rovesciato e procediamo lungo il portico, celletta, celletta, ognuna dedicata a un thirtankara, gli illuminati culto dei jaina. È tutto levigato e lucido. Ascoltiamo quello che dice il Touring, sembra che gli artigiani che vi lavorarono, venissero pagati in base alla polvere raccolta a fine giornata e che il loro lavoro fosse considerato atto di ascesi o devozione. Meno male! Visitiamo gli altri due tempi sciolti e ci avviamo all’uscita.
Qui troviamo le ns. calzature sotto sequestro, solo sotto elargizione del riscatto riusciamo a riottenerle. Si tratta di pochi spiccioli ma caspita è il principio! Abbiamo scritto in fronte, “turisti fessi spillateci qualche rupia”. Il tipo non ha alcun diritto di chiederci niente, infatti al gruppo di uomini non chiede niente. Prenderà comunque la mancia. Anche questa è india.
Direzione autobus, sono le 16 e incominciamo a sentire esigenza di cibo… anche se a paragonarci con gli indiani non sembriamo certo affamati. Prima di riprendere il bus, si rende necessario la sosta toilet. Bagni del tempio a detta di qualcuno impraticabili. Bhe, rimane che “scendere in campo” come dice Benigni. Si sembra facile, potrebbe essere il retro di casa di qualcuno che vive per strada. Dopo un po’ di sguardi indagatori trovo personalmente, ne esigo il merito, il posto adatto e collettivizo. Sono stata educata al comunismo e chi non piscia in compagnia… sorvolo i dettagli. All’autobus la prima folla di indigeni, il primo contatto in massa. Siamo circondati da donne, bambini e venditori. Un mix di cordialità, curiosità e perché nò speriamo di guadagnarci qualcosa. Non è stato un contatto indolore, qualcosa scatta. Non saprei dire bene cosa, una combinazione di paura, pietà e imbarazzo per queste due cose. Ingoio tutto, ruminerò in seguito. Si riparte. Pioggia e autobus. Sosta in un villaggio per recuperare banane, patatine e biscotti e si riparte. Non è male quando hai 18 compagni di viaggio da conoscere fare dei lunghi tragitti in bus. Per lo meno all’inizio è assai piacevole. Massimo ci istruisce un po’ sulle caste e circuito un po’ ci racconta anche una storia dal Mahabarata. Manca solo un caminetto acceso per completare l’atmosfera, è veramente stupendo. Non so cosa chiedere di più, un viaggio che promette bene, dei compagni di viaggio sulla stessa lunghezza d’onda ed un accompagnatore che si commuove per la bellezza delle storie della mitologia hindù. Ho subito l’impressione che i diversi libri che mi sono portata rimarranno in fondo alla valigia. Per un’oretta buona siamo anche in fila. Siamo incolonnati con altri camion, non si capisce forse un incidente, scendiamo insieme a quella varia umanità che passa sui cassoni dei camion per le strade del Rajastan. Optiamo anche per una doccetta monsone rapida rapida, tanto fermi per fermi. Quando riprendo coscienza è spuntata la luna, é quasi piena, ci accompagna a Jodhpur.
Sigaretta sulla porta dell’albergo e mi accorgo di quanti gechi ci sia in India. Belli paffuti, immobili, grigio sporco ti grafitano sopra la testa in una quantità considerevole. Per fortuna innoqui e per fortina all’esterno.
Saga dei bagagli, autobus stipato e via! Prima destinazione Monte Abu. Il Touring dice che è una località di villeggiatura per gli Indiani in viaggio di nozze, panoramica, su di un cucuzzolo degli Aravalli, 1200 mt, domina diversi laghi. Noi andiamo a vedere un complesso di tempi jaina. Il viaggio non è affatto breve e nemmeno agevole, dopo un tratto in piana si sale e i tornanti sono ripidi e numerosi. Mi domando se l’autobus ce la può fare. Certo non è un ultimo modello ma si presta bene, l’aria condizionata è rotta ma per me è ottimo. Odio quell’aria preconfezionata che ti schiaccia il sudore addosso e ti mina la gola. Qualcuno si lamenta, speriamo che non trovi forza. Prendo posto nel penultimo sedile sulla fila di destra. In fondo in fondo, é troppo a discola e poi oggi è pieno di bagagli. Ho trovato un paio di buone posizioni, scalza a mezzo loto oppure con i piedi appoggiati al finestrino, riesco alternando queste sedute ad uscire indenne dalle 4 ore di autobus. Per fare 30 km in india ci vuole quasi un’ora. Le strade sono a tratti asfaltate e tratti che ti sembra di essere in mezzo ad un campo. Quando passa il monsone cancella ogni riferimento delle strade bianche, rimane che confidare nell’autista.
Appena arriviamo a Monte Abu scatta il monsone, inizia a piovere in modo assai interessante, intenso e continuo. Ci attrezziamo, cappello, k-way. Siamo fradici ugualmente. Procediamo bagnati, la temperatura lo permette. Non possiamo portare niente dentro. Lasciamo gli zaini al guardaroba… non è proprio come quello delle discoteche ma il numerino c’é. La guardia all’ingresso prende in disparte il nostro leader e gli parla ad un orecchio. Pissipissibaubau. Lui fa cenni di assenso, ride. Lo avevo letto sulla guida, non possono entra al tempio le donne durante il periodo mestruale. Sfidiamo il controllo e procediamo scalzi. Il marmo liscio a piedi nudi non è u’impresa da poco. Capo basso, baricentro pure e “dove s’entra?!” Un po’ a fatica troviamo l’accesso al primo tempio del complesso. Molto simile per decorazioni al precedente di Ranakpur ma diverso per planimetria. Più piccolo e definito presenta un portico che corre tutto lungo il perimetro quadrato; sul lato esterno sono disposte delle cellette mentre il lato interno, colonnato, si apre su un cortile che contiene il santuario centrale. Questo é collegato al portico perimetrale da più sale colonnate sormontate da splendide cupole decorate mandapa. Il marmo bianco risplende anche alla debole luce della giornata di pioggia, la decorazione è fitta, sembra un edificio di cioccolato bianco o burro scavato in modo convulsivo. Ci stupiamo dei fregi del soffitto, un grande fiore di loto rovesciato e procediamo lungo il portico, celletta, celletta, ognuna dedicata a un thirtankara, gli illuminati culto dei jaina. È tutto levigato e lucido. Ascoltiamo quello che dice il Touring, sembra che gli artigiani che vi lavorarono, venissero pagati in base alla polvere raccolta a fine giornata e che il loro lavoro fosse considerato atto di ascesi o devozione. Meno male! Visitiamo gli altri due tempi sciolti e ci avviamo all’uscita.
Qui troviamo le ns. calzature sotto sequestro, solo sotto elargizione del riscatto riusciamo a riottenerle. Si tratta di pochi spiccioli ma caspita è il principio! Abbiamo scritto in fronte, “turisti fessi spillateci qualche rupia”. Il tipo non ha alcun diritto di chiederci niente, infatti al gruppo di uomini non chiede niente. Prenderà comunque la mancia. Anche questa è india.
Direzione autobus, sono le 16 e incominciamo a sentire esigenza di cibo… anche se a paragonarci con gli indiani non sembriamo certo affamati. Prima di riprendere il bus, si rende necessario la sosta toilet. Bagni del tempio a detta di qualcuno impraticabili. Bhe, rimane che “scendere in campo” come dice Benigni. Si sembra facile, potrebbe essere il retro di casa di qualcuno che vive per strada. Dopo un po’ di sguardi indagatori trovo personalmente, ne esigo il merito, il posto adatto e collettivizo. Sono stata educata al comunismo e chi non piscia in compagnia… sorvolo i dettagli. All’autobus la prima folla di indigeni, il primo contatto in massa. Siamo circondati da donne, bambini e venditori. Un mix di cordialità, curiosità e perché nò speriamo di guadagnarci qualcosa. Non è stato un contatto indolore, qualcosa scatta. Non saprei dire bene cosa, una combinazione di paura, pietà e imbarazzo per queste due cose. Ingoio tutto, ruminerò in seguito. Si riparte. Pioggia e autobus. Sosta in un villaggio per recuperare banane, patatine e biscotti e si riparte. Non è male quando hai 18 compagni di viaggio da conoscere fare dei lunghi tragitti in bus. Per lo meno all’inizio è assai piacevole. Massimo ci istruisce un po’ sulle caste e circuito un po’ ci racconta anche una storia dal Mahabarata. Manca solo un caminetto acceso per completare l’atmosfera, è veramente stupendo. Non so cosa chiedere di più, un viaggio che promette bene, dei compagni di viaggio sulla stessa lunghezza d’onda ed un accompagnatore che si commuove per la bellezza delle storie della mitologia hindù. Ho subito l’impressione che i diversi libri che mi sono portata rimarranno in fondo alla valigia. Per un’oretta buona siamo anche in fila. Siamo incolonnati con altri camion, non si capisce forse un incidente, scendiamo insieme a quella varia umanità che passa sui cassoni dei camion per le strade del Rajastan. Optiamo anche per una doccetta monsone rapida rapida, tanto fermi per fermi. Quando riprendo coscienza è spuntata la luna, é quasi piena, ci accompagna a Jodhpur.
Sigaretta sulla porta dell’albergo e mi accorgo di quanti gechi ci sia in India. Belli paffuti, immobili, grigio sporco ti grafitano sopra la testa in una quantità considerevole. Per fortuna innoqui e per fortina all’esterno.