12 settembre 2006

UN FILO D'INDIA. La Yamuna e la mia sciatica.

13 agosto 2006. Di dormine non è aria. La partenza è fissata molto presto, troppo. Sveglia alle 6, colazione 7, partenza alle 7,30… prevista almeno. Attendiamo l’autobus che ci condurrà a Mathura, città natale di Krishna. Attendiamo appunto più di due ore, ma il nostro vecchio pulman non arriva. Non conosco i nomi dell’autista e del ragazzo che lo accompagna, il tipo che guida, magrino e composto sembra il presidente dell’Iran, con la sua veste/divisa verde militare. Il ragazzo in jeans e maglietta sorride sempre e tiene lo sguardo a terra. Sembrano brave persone, ci hanno accompagnato per la maggior parte del tragitto, ci hanno lasciato solo per questi due giorni che è arrivato in soccorso delle “Signore” il pulmino con l’aria condizionata. Dormono sull’autobus, lo tengono pulito e visto le condizioni un po’ vetuste non è semplice, la mattina accendono un incenso e cambiano aria… fatto è che non sono qui. Sono le 7.30 noi siamo pronti e l’autobus, uno qualunque, quello vecchio, quello nuovo, non c’é. Ci mettiamo a cerchio con le sedie e ci sorbiamo con il cervello quasi sveglio una lezioncina, bhe quasi, non ricordo di cosa… quando alle 10, non abbiamo ancora un mezzo di locomozione Massimo decide di prendere l’iniziativa e rimedia dall’albergatore 3 jeep con autista che ci porteranno a destinazione. Ci facciamo preparare un pranzo colazione per mangiare per strada, pan carrè e uova sode, le classiche insormontabili banane. Non è semplice disporre 19 occidentali con bagagli e 4 indiani su 3 jeep. Io miro il mezzo che porta i viveri oltre al figlio del proprietario dell’albergo. Assolutamente senza malizia solo perché era l’unico ad avere interesse che tutto filasse liscio. Prendiamo posto, la jeep che ho prescelto porta viveri e non bagagli, caricherà il massimo delle persone: 3 davanti, due indiani e massimo, 4 dietro, me tra queste e per fortuna gli amici sardi sono di vecchia generazione, 4 dietro, totale 9+2=11, bel numero no? La mia collocazione nei sedile posteriore mi porta subito nelle condizioni post bagno turco, fradicia di sudore, ho le spalle appoggiate al finestrino, appoggio solo l’ischio sinistro al seggiolino. Quanto potrà durare il dolore prima che mi si intorpidisca gli arti inferiori e avvii la cancrena… questa vita è solo di passaggio! Tempo 20 minuti forse, non saprei dire, al figlio del proprietario, lo stesso che ci aveva accompagnato in montagna il giorno prima squilla il telefono farfuglia qualcosa e scende. Una delle mie certezze di giungere a destinazione svanisce, rimangono solo i viveri, magra consolazione. Passo davanti, disponendomi tra le spalle XXL di Massimo e cambio della jeep. Opto per tenere la gamba destra accavallata appoggiata al cruscotto, non mi sembra carino inforcare a cavalcioni il cambio della jeep e mettere in imbarazzo l’autista… non si scambiano nemmeno un bacetto in pubblico come posso costringerlo a mettermi le mani fra le gambe per cambiare marcia?! Per l’appunto la strada è sterrata e la seconda è provante per il mio nervo sciatico… finirò ad urlare di dolore, come quella volta che s’andò al mare con la vespina 125 passando per strada normale, la notte mi prese un’attacco di infiammazione al nervo sciatico da urlo, tanto che la mattina andavo ad iniezioni di voltaren! Sempre più frequentemente sono costretta a cambiare gamba, sembro la Parietti sullo sgabello! E poi la mano, perdo sensibilità… apri chiudi apri chiudi. La conversazione almeno quella è piacevole, ascolto. Stranamente non parlo, non interrompo, lo lascio parlare, gli piace essere ascoltato, sono il suo pubblico e mi piace ascoltarlo, cosciente di essere una spettatrice. Solo due o tre volte mi affronta con domande, forse domande che non chiedono risposta, ma mi lascia spazio e ne approfitto. Le mie parole lasciano l’eco e poi il silenzio e la distanza, anche fisica. Alle 14 sosta “open toilette e pranzo. Ci fermiamo davanti ad un campo di granturco, quale miglior paravento alle necessità fisiologiche?! È da immaginario da film dell’orrore ma mi faccio forza, batto bene i piedi in terra, non si sa mai… sti’serpenti del grano fossero da granturco… comunque la dimensione collegiale della nostra sosta pipi spaventerebbe anche loro! Due passi nel mais, esperienza unica, consentita solo dalla tranquillità del nostro gracchiare. Pranzo: banana, l’uovo sodo ho un rifiuto atavico, ho sempre l’idea di non riuscire a deglutirlo. Lo Squillo s’ostina sempre a propormelo, quando c’è qualcosa che non mangio e sono davvero poche s’ostina sempre a propormelo per farmi sentire esosa e viziata. Ma io tengo duro alle mie fobie, l’ovosodo aggozza, lo dice anche Virzì, non fa ne su ne giù…
riprendiamo il viaggio, passiamo il confine della regione, dal Rajastan entriamo in Uttar Pradesh. Il paesaggio non cambia molto, era già cambiato prima verso Sariska. Viali alberati, traffico meno intenso, ai lati campi coltivati, risaie, case basse dignitose. Gli autisti non parlano una parola di inglese, capirsi non è affatto semplice. Ripetiamo allo sfinimento il nome di Mathura, che si pronuncia Matrà, almeno così dicon loro… alle 17 circa arriviamo in un centro abitato, sembra la metà, ma non ci fermiamo proseguiamo diritti. Le forze cominciano a venir meno. L’aria veloce dal finestrino ci tiene desti. Ci fermiamo ad un incrocio che sapremo in seguito essere centrale a Mathura. Scendiamo a chiedere informazioni, o meglio i nostri autisti chiedono. Ecco io ho iniziato lì a sentirmi un animale da circo. Eravamo accostati lungo la strada, a ridosso di venditori ambulanti di dolci e bevande che a bocca aperta non hanno smesso di guardarci un istante. Ci siamo sgranchiti, le nostre facce evidenziavano le nostre pessime condizioni. Ripartiamo verso l’albergo che troviamo al secondo tentativo e che per fortuna era un bell’ambiente.
L’aria condizionata ci costringe ad accenderci una sigaretta e stare fuori, l’abissale differenza arriva subito all’intestino e smuove quello che non ha ancora smosso il cibo indiano, meglio stare alla larga prima di entrare in possesso della chiave della camera! Una volta ottenuta la chiave il tempo è quello di recuperare i bagagli dall’esercito dei portatori di valige, gestire le mance e passare dal bagno per l’indispensabile. Venti minuti e siamo di nuovo davanti alla porta, pronti a riprendere le jeep, senza bagagli e quindi in condizioni più comode. La città che attraversiamo, Vrindavana è molto più hindù di quello che abbiamo visto in Rajastan. La sporcizia in terra è stratificata, il divario tra palazzine, abitazioni unifamiliari e tende è evidentissimo. Viuzze strette, auto di lusso e risciò a pedali. Le jeep se la districano per queste strade, l’autobus probabilmente non sarebbe riuscito. Arriviamo all’acqua, il primo contatto. Costeggiamo il fiume, lo Yamuna, o forse la Yamuna, dato che in hindi i fiumi sono femminili, che civiltà... anche l'acqua è "donna". Sadu e viandanti lungo il tragitto. Arriviamo alla meta, Keshi Gath. Le jeep parcheggiano e ci scaraventano in mezzo ad una quantità di gente incredula e scocciata della nostra visita. I loro sguardi non sono affatto cordiali e non lo nascondono. Non tentano di venderci niente ne di essere gentili e sorridenti, per lo più uomini e bambini. Non abbiamo il tempo per concretizzare che non gli stiamo simpatici, ci fiondiamo a bordo di due barche che ci faranno percorrere il tratto di fiume davanti al gath. Sono sull’acqua, finalmente l’acqua, il grande flusso sacro. Ci sono quattro indiani a bordo che con il sudore della fronte e dei bicipiti, ci traghettano verso l’altra sponda, attraversano il fiume e ci portano davanti all’edificio. È bellissimo, la luce del tramonto crea forte contrasto chiaroscurale e accende di calore la pietra ocra scuro. Troviamo degli occidentali nell’acqua sull’altra sponda, russi… con gli indiani saranno gli unici superstiti alla bomba atomica con quegli anticorpi. Avvicinandosi all’edifici apprezzo ad occhio nudo quello che potevo vedere con il trecento e punto dettagli, il bimbo che si tuffa, il soggetto in braghe bianche sdraiato ad asciugare, il gruppo a chiaccherare con le bici appoggiate e l'albero, enorme ancora…quello lassù, severo, distinto, che guarda proprio me, come quelle figure nei quadri di Caravaggio che oltrepassano la tela. Emozionante, la luce del tramonto rende questo luogo sublime.
Riprendiamo le jeep, e al volo rubo una foto che mi soddisfa molto, potrei chiamarla “l’essenza del maschio”: un bel soggetto paffuto vestito a quadri azzurri piscia in piedi al muro in mattoni di un edificio paragonabile ad una fabbrica ottocentesca e dietro di lui, sotto l’arcata simmetrica passa un altrettanto paffuto cinghiale. Una pisciata e via… acida e polemica? Forse.
Da qui riprendiamo per altre destinazioni interessanti, ma niente al confronto della luce che accende quest’acqua sacra. Govinda Devi Mandir, il tempio delle scimmie che ruban gli occhiali potrebbe essere il sottotitolo. Mi pento di non aver fatto la foto alla salita a questo tempio, chissà come mai. L’ho impressa nella mente la sfilata ordinata, a partire dalla base, di baracche del te, banchini con immagini sacre e pile di spicci. Si bambini o vecchi vendevano spiccioli, per cosa? È me lo chiedevo anch’io… video game non eran certo, appena la strada sale davanti alle case sostano file di accattoni, mendicanti, ordinati con la loro ciotola davanti, offrendoti la possibilità di scegliere come e con chi ripulirsi la coscienza. Io resisto nei miei principi ed arrivo alla bocca del tempio. Da qui in poi ho una percezione morbida, rossastra di pietra chiaroscurata. Sembra che nemmeno la bandana sulle stecche degli occhiali possa frenare il raptus di una scimmia che vuole gli occhiali. Stanchi morti e senza essere troppo entusiasmo ripartiamo per il tempio degli Hare Krishna. Per la prima volta sento raccomandazioni di comportamento per non perderci o farci abbindolare da qualcuno. Allora siamo davvero in un'altra condizione rispetto al Rajastan. Siamo in anticipo, noi enfant terribile ci collochiamo tra la folla a sedere e a batter le mani. Quando alle 20 inizia la puja, la gente infuria! Balli, canti, saluti, bambini, non risparmian nessuno. Arriviamo sotto palco e chiappiamo anche un po’ di fuoco sacro. Come delle vere goopi (o come si scrive, accetto suggerimenti) ci trascinano via dal delirio dell'ultima canzone. Per completare la sfiga della giornata buchiamo anche una gomma… ma per fortuna a 300 mt dall’albergo.
A sera c’è da smaltire qualche malumore dovuto alle mancanze della giornata e a divergenze logistiche sulla giornata successiva. Il programma si spezza in più opzioni, per un gruppo “masochisti” è prevista levataccia per andare a vedere il tempio sorto sul luogo di nascita di Krishna, per i goduriosi la possibilità di dormire e riunirci alla partenza, sempre se il pulman arriva, alle 9 per la partenza verso Agra.