19 ottobre 2006
UN FILO D'INDIA. Haritward, la porta di uscita ...e dell'agonia del ritorno.
23 agosto. Scappiamo da Amritsar prima dell’alba. Come fuggiaschi da una galera, come amanti da un letto ancora caldo, magari scavalcando anche il cancello. La colazione ci agonizza, ritmi indiani, a quell’ora impropria. È un’ora in cui di solito faccio il primo sogno strano. Questa notte ho dormito appena tre ore, l’euforia della giornata, i malesseri della serata e le chiacchere notturne. Sigaretta al bar con gli uomini della comitiva. Non so quale strana alchimia mi porta sempre a fare il compagno da bar degli amici dell’altro sesso. Forse la tolleranza all’alcol… Fatto è che questa mattina sto proprio male. Sono le 5.00, siamo a fare la nostra abbondante colazione, di yogurt, papaia, pane tostato e uova sode, e sudo freddo, ho una camicia di cotone senza maniche e il giubbotto di jeans, sciarpa al collo e sento freddo. L’aria condizionata è spenta, i miei compagni di viaggio si lamentano del caldo. Qualcosa non va. Mi asciugo con l’inseparabile bandana che fa tanto Indiana Jones. Sudori freddi, temperatura corporea bassa alle 5.00 del mattino. Strano.
Il giorno che ci aspetta è l’ultimo effettivo, prima del volo di rientro. Viaggeremo 8 ore, sul nostro ultimo busse, in direzione Haritward, la città sacra alle pendici della grande montagna, Himalaya. Una tirata unica, senza soste pranzo, solo open toilette. Una stracanata.
Che gioia partire proprio con il piede giusto!
Ad Hartward, ci aspetta quello che secondo l’iniziatore del Guru all’India - non ché grande fotografo - è uno dei maggiori spettacoli possibili, la puja della sera, sul Gange con più di 20 postazioni brahamaniche, niente in confronto alle 4 di Varanasi. Perché sì, Haritward, letteralmente porta del paradiso, è vicino alle sorgenti del Gange, qui troveremo la madre Ganga, più giovane e fresca. Pulita non oserei.
Ebbene, io e i miei sudori freddi ci accomodiamo da veri discoli sul sedile in fondo, con me, Tiziana e il Guru. Ormai abbiamo consolidato una certa sintonia. A dire il vero noi donzelle, abbiamo occupato interamente i sei posti, spingendo il nostro Leader a fare una lezione al microfono. Mi spiace molto ma non ricordo nemmeno l’argomento, la mia solita attenzione è assorta nella lotta contro la febbre. L’ho misurata: 39 e di prima mattina. Penso che sia il dell’emozione del giorno prima, non mi preoccupo troppo, passerà. Anche se, abbandono i fiori di Bach, per la rapida combinazione aspirina e aulin. I dolori muscolari mi ammazzano, non trovo posizione. Ricordo di essermi svegliata fradicia di sudore sotto l’effetto dell’aspirina e di aver chiesto help al gruppo, “nessuno ha una felpa in più?”. Infagottata in un paio di maglie di altri ho dormito per tutta la mattina, trovandovi stesa testa piede con Tiziana e, in un momento di rinsavita, ricordo di aver visto Massimo rintanato a terra, stretto tra i seggiolini. Attorno alle 14, abbiamo caricato banane, ne ho mangiata una, giusto per prendere la seconda dose di farmaci. Stravolta. Capelli bagnati, indumenti zuppi. Freddo. Provo con gli arachidi, magari questi oli vegetali indiani mi danno una botta di proteine che aiuta la ripresa. Solo un modo per giustificare la golosità.
Attorno alle 20, siamo ad Haritward. Il tempo è chiuso, grigio e molto umido. Non ci sono più orizzonti aperti, ma non si vede nemmeno la grande montagna dal profilo conosciuto. È una grande catena in effetti. La mia temperatura non è scesa, ho sempre 39 di febbre. Ovviamente non lo dico a nessuno, non posso fare La Splendida perché non sono in condizioni, ma tento di tenere duro e non lasciarmi abbattere.
Tutto per quella signora che mi ha baciato, non ci posso pensare! Ma cosa tenevo dentro che è esploso per ridurmi così?! Oppure sento già aria di partenza e incomincio un giorno prima a boicottare il rientro?
Arriviamo alla città puntando subito alla nostra meta, il fiume, la puja. L’autobus si addentra in un parcheggio che sembra un campo profughi. Mi ricorda un film sul dopo guerra a Napoli. Autobus come il nostro, pieno di pellegrini, accampati fuori, in terra, sullo sporco, intenti a cuocere i loro cibi in pentoli immondi. Sì, sono in grado anche di muovere critiche contro l’India e contro gli indiani, non mi sono ancora bruciata il cervello del tutto. Vivono di spiritualità,tutto il resto è superlfluo, per loro, ma mica per me. Qualcuno, da questo primo colpo d’occhio è tentato di rimanere in bus, ma Massimo caldeggia vivamente perché si scenda tutti. E dire che un pensierino l’avrei fatto... Scendiamo in mezzo ai devoti indigeni e nessuno, nessuno, ci viene incontro a vendere e a chiedere elemosine. Siamo noi gli ufo, qui. In fila indiana scavalchiamo accampamenti, pozze, fango, e immonderie di vario tipo. Passiamo in mezzo a bancarelle surrogati di Via della Conciliazione pre San Pietro e arriviamo sul fiume. Praticamente il gath è protetto nella parte antistante da una banchina collegata da ponti, in modo da canalizzare e moderare le acque sacre davanti alle postazioni dei brahamana. Il Modello di Chioggia per intendersi e su questa ampia banchina c’è un orologio molto, molto inglese. Siamo arrivati un po’ in anticipo per il rito della sera. Soddisfiamo i bisogni fisiologici prima di quelli spirituali e cerchiamo un cesso in un albergo. Lo troviamo giusto a tempo per ripararci anche dal monsone. Acqua dal cielo a catinelle. La cosa più interessante, è stata vedere i venditori ambulanti che tirano su la merce, sempre da seduti nella loro postazione e coperti con un telo, lì rimangono a far cessare il cielo di piangere. Incredibili, fermi, scalzi, sotto l’acqua ad aspettar che finisca. Io invece nel mio kway prestato da Sabrina, faccio la sauna finlandese. Ah basta girare!
Per fortuna smette e ci dividiamo in due gruppi, quelli a seguire il rito dall’orologio e quelli dalle postazioni brahamane. Ovviamente io da miope curiosa, voglio andare più vicino possibile, anche con la febbre. Se non che, è necessario entrare scalzi in questo sacro gath… con 39 di febbre, per fortuna qualcuno di più saggio mi ravvede che non è il caso, visto il diluvio di due secondi prima. Quindi ci troviamo peripatetici alla ricerca di una collocazione e giriamo, giriamo, sorridendo alla gente, cercando angolini che in punta di piedi ci lasciassero vedere qualcosa. Probabilmente, abbiamo svoltato dalla parte sbagliata, perché abbiamo visto ben poco di queste 20 postazioni e il rito è stato brevissimo, rispetto a quello di Varanasi. Comprendeva solo i 4 elementi principali, fuoco e latte, aria e terra, doni che la madre Ganga.
Ci siamo installati sul ponte di collegamento alla parte dell’orologio, ad ammirare i temerari ragazzi che si buttavano in mutande nel Gange, che anche se canalizzato, è freddo e velocissimo. I brividi mi triplicavano a vedere questi tuffi. È molto più armonioso il rito della candela nell’acqua: un pensiero, una preghiera, la benedizione che l’acqua porta via con il cestino di fiori la candela e ciò che rappresenta.
Ci ritroviamo tutti sotto l’orologio, siamo prede ambite dei più loquaci che audacemente si fanno fotografare con noi, anche in mutande, anche bagnati. La fila indiana si ricostituisce e il percorso a ritroso sarà più duro, al buio. Risulta assai provante saltare tra pozze, fango, accampati e i loro coccini.
L’albergo è hindy ma dignitoso. La stanchezza oltre ogni aspettativa. Mi faccio forza, doccia per prima e… Scaldabagno spento. Doccia fredda, anche questa finlandese? Che il mio karma voglia spingermi in altri lidi? Mangio per inerzia ma sempre voracemente, se devo morire almeno a pancia piena. C’è un musico che suona quella fisarmonica a terra, quell’armonica tipica, la serata poteva anche essere piacevole. Abbiamo la suite, con la doppia stanza con soggiorno, ma non ci fumo nemmeno un cicchino, ninna diretta e aspirina. Ho delirato quella notte. Incubi. Le mie compagne di camera oramai ci hanno fatto l’orecchio alle mie chiaccherate notturne.
24 agosto. È un giorno che non esiste, è già ritorno. Non ci sono tappe solo tragitto per Delhi aeroporto. Tre ore e saremo imbarcati. Delhi, Mumaby, Mumbay Vienna, Vienna, Milano Malpensa e poi treno per Firenze. La colazione, l’ultima in un albergo indiano. Scendo presto, qualcuno è già arrivato, ma lo spirito di gruppo è già sfilacciato. Le coppie sono autonome, qualche singolo al tavolo da solo. Il ritorno ha quest’effetto, si sente già aria di casa e la stanchezza è davvero troppa, anche per me. Arriva il festeggiato, oggi è il Gurucompleanno e non posso fare a meno di fargli gli auguri contraddicendo le direttive generali che vogliono una sorpresa più avanti. Il rispetto della discepolanza mi impediscono di abbracciarlo forte e dirgli “grazie di tutto questo, è davvero di più di quello che desideravo”. Mi limito a prendergli la mano e a stringerla forte, “buon compleanno, ascendente sagittario!”.
Ancora busse, questo è proprio l’ultimo tragitto. Ancora Delhi, la silenziosa. La stazione dei voli interni è piccola ma feroce con i controlli, le poliziotte palpatrici bellocce, i tramezzini tremendi. Siamo tutti distrutti sulle poltrone, tranne due. Uno agisce e l’altro documenta. Il Guru barcaglia due turiste possibili future clienti, sulla strada di casa come noi e Beppe documenta con scatti vari: l’avvicinamento, l’attacco e la ritirata. Io invece ho dei capelli con piega alla Tezzuia di Mazzinga Z. A volerli fare così non ci sarebbe modo.
Sul primo volo una signora di mezza età sikh tenta di socializzare. Ma un po’ il mio scarso inglese, un po’ parole in italiano a lei incomprensibili e i gesti, la dissuadono a continuare, dandomi la possibilità di cadere in quel lungo letargo che con qualche sosta di necessità, come i cambi dei voli a Mumbay, mi hanno portato fin sopra Wien. Sopra Vienna ho incominciato ad accusare i sintomi di quel regolare mal di viaggio che capita a quasi tutti. Lo dicevo io a Mumbay che volevo rimane lì, ma nessuno mi ha preso in considerazione! Così come nessuno ha considerato strano la mia quiete o la posizione di riposo, abbracciata al tavolino del sedile.
25 agosto. All’aeroporto di Vienna sono arrivata già fortemente provata. Ci vogliamo aggiungere anche la prova bilancia che mi vedeva ingrassata di due chili? Distrutta, un cencio. Ho dovuto fare shopping al Duty Free per trovare le forze di rientrare. I primi saluti, Tiziana ha la coincidenza più tardi.
Nemmeno un’ora e arriva anche Malpensa, il ritiro bagagli e ancora saluti. Navetta e il gruppo è veramente ristretto, ci dividiamo. Milano centrale, saluti esauriti e cinque minuti alla partenza dell’eurostar precedente alla mia prenotazione. Tento il tutto per tutto. Gomitate e la forza della disperazione mi portano alla motrice del mio treno nell’ultimo binario di quell’immensa e affollata stazione.
Culo, solo culo. Becco subito il capotreno, un giovane rossiccio chiaramente fiorentino, evidente dalla mancanza di elasticità dei muscoli del sorriso. Mi conferma la disponibilità di posti e mi monta dalla motrice, “il treno parte ora, sali da quì”. Chiude le porte e mi dirotta verso la seconda classe, dieci vagoni più avanti. Tento di rimanere in prima, “pago il supplemento, rimango qui”, non avevo più la forza di trascinare quella valigia. “No, c’è posto, vai avanti”. Oh ma una manciatina di azz suoi, ma tutti io…
Passo anche il vagone ristorante, che ancora è chiuso e non concede nemmeno acqua agl’assetati. Niente. Prima carrozza di seconda classe, primo posto libero, io e la valigia crolliamo, per fortuna io sopra di lei. Passa il rosso e ha la ben pensata idea di non farmi spostare, forse non voleva chiamare la gru. Ho fatto giusto a tempo a prendere la Repubblica in aereo, per fortuna, la sete di notizie equipara la voglia di caffè rimasta insoddisfatta dopo la ciofeca del vagone ristorante. Chiamo lo Squillo e avviso dell’anticipo. Mentre mi avvicino alla grande cupola che con la sua ombra copre tutti i popoli della Toscana, mio padre mi chiama a più riprese, “si, babbo sono a Bologna”, “sono quasi arrivata, abbiamo passato ora la galleria di Vaiano”, “ sono a Rifredi babbino, cinque minuti e son costì”.
Non posso certo dirgli che non sto’ bene… già, mi sembra abbastanza provato. Poi incomincia con la storia della Turchia, “…tu vai sempre lontano, tu torni malata, ma a Rimini mai?!”. Penso: “scattatolo di nascosto in farmacia e mi curo da sola, che vuoi che sia un po’ di disturbo, 4 enterogermina ed è già finito”. Quando scendo, scaraventando la valigia dallo scalino, lui non è ancora arriva, giusto una piccola corsa con le rimaste forze, tre parole al farmacista e risuona “’ndo tu sei?! sono scesi tutti…”, “ci sono babbo, ci sono, sono già più avanti, vieni verso la farmacia”.
Pago in fretta, esco… e te lo vedo, stupendo! …con la sua chioma bianca, di passo veloce cercare con gli occhi e il collo tirato, portandosi la mano alla fronte, nemmeno fosse su una spiaggia dei Caraibi con il suo panama.
“Babbo!!! Ci sono son tornata, visto!! Babbino, però ci torno!!”