10 ottobre 2006

UN FILO D'INDIA. “… alla Svizzera verde”.

22 agosto. Meno 4 e si sente! Il clima tra noi è più confidenziale e aperto. I guai tra le coppie sembrano rimediati. Io devo dire la verità, quando mi trovo ad assistere ai bisticci o alle incomprensioni della vita a due, trovo una rinnovata forza per la mia vita da single. Un po’ mi spiace, ma mi godo la mia libertà da queste cose. O forse è solo un modo per esorcizzare la mancanza di tenerezza.
Oggi abbandoneremo Delhi, vecchia o nuova che sia, tradizione o modernità, passeremo oltre, direzione Punjab. Meta la sua capitale spirituale: Amritsar. Passiamo nel silenzioso traffico della città, almeno in relazione a quello che abbiamo affrontato per il resto dell’India. La guida ci spiega che sono per lo più auto indiane e a metano, imposizione del Governo della città e nazionale penso, con dazzi alti sulle auto di importazione, modello Lega. Ripartiamo dai piedi della moschea per un giro in richshaw di una mezz’oretta che ci rifionda nel pieno caos indiano, vicoli strettissimi, bancarelle lungo la strada, mendicanti e bambini inseguitori. Poi assaporavamo già nozioni archeologiche al museo nazionale che contiene anche colossali reperti del nord dell’india, ma il nostro Guru è un uomo che non tiene conto dei giorni della settimana e come ci ha portato a Varanasi di domenica, giorno in cui di abluzioni non si fanno all’alba, al museo ci porta nel giorno di chiusura. Ci condediamo una lunga sosta pranzo, durante la quale ho il piacere di parlare con il nostro Doc fotografo che ci cura e incoraggia a distanza, carpendo informazioni per le foto della spettacolare Puja di Haritward, 22 postazioni sul Gange. Passiamo davanti alla casa del Mahatma Gandhi, tentiamo di cogliere qualcosa dalle protezioni, prima di andare alla stazione. Prenderemo il treno fino ad Amritsar, come poteva mancare quest’esperienza con tutto il parlare dei treni indiani!? La mia immaginazione rielabora la foto di Salgado sulla stazione di Mumbay e mi immagino scene di agglomerati spaventosi di folla. Questo non accade. Abbiamo con noi, già dalla discesa dal bus, diversi angeli custodi con carretto che ci traghettano fino al nostro vagone. Incredibile. Sanno da dove e a che ora partono i treni. Chissà quanto e in quanti vivranno con quella mancia. Alla stazione arriviamo in anticipo e abbiamo tempo di girare e guardarci attorno. Meglio, abbiamo tempo di portarci a spasso, come animali rari in passerella al circo. Nonostante Delhi sia la capitale, anche qui il turista si distingue nella folla.
Il treno prima del nostro parte per Chandigrad, la città che manca in questo viaggio. È la capitale amministrativa del Punjab. Sorta per volere di Nehru dopo la spartizione del territorio con il Pakistan e progettata da Il Maestro, Le Corbusier. La sua ultima discussa opera, dove rimette insieme tutta la sua poetica urbana e progettuale. La città ideale scomoda e incrostata oramai dei costumi indiani. Forse é un bene che non sia prevista. Quello è un altro viaggio. Un viaggio nella concezione architettonica del Novecento, nella lottizzazione a scacchiera americana degli isolati, nella funzionalità degli edifici, nella rispondenza alle esigenze stereotipate di un ceto sociale ancora suddiviso, non in operai e borghesi ma in caste, negli edifici lontani dal fronte stradale, nel Campidoglio con i brie-soleil, nell’antropomorfismo della scala architettonica e nei cromatismi del maestro, in quella mano aperta simbolo di pace e saluto. La città amministrativa, sacra di senso di civico. Incasso anche un’accusa di qualunquismo intellettuale. “Alla storia passano solo le cose belle e codesto è stato un fallimento”. Farfuglio qualcosa, ecco, uff, uno di quei momenti in cui non mi vengono le parole, senso di inadeguatezza. “Concordo con il giudizio, ma non per questo è immeritevole di una visita, rimane, comunque, una cosa da vedere”. “Allora secondo te Hitler doveva fare la seconda guerra mondiale per vedere…. Codesto si chiama relativismo”. Io ho bisogno di mettere il dito e il naso nelle cose, ho fiducia in chi ha più informazioni di me, anzi troppo spesso pendo dalle labbra di chi qualcosa da insegnarmi, ma questo non toglie che poi io rielabori tutto in modo personale, e anche le cose brutte non sono escluse da questa indagine, altrimenti perché non riparerei a gestire tutto quello che desidero fare?
Ma non ci andremo, a Chandigrad e non mi prodigo perché accada.

Partiamo per Amritsar, nella patria dei Sick, indiani alti e robusti, che derazzano con il loro elegante portamento. Eleganti con il loro turbante, come Sandokan, la Tigre di Malesia e della mia infanzia, e il pensiero vola veloce a Salari, a Jolanda la figlia del corsaro nero e a quel messaggio, a quell’alcolico 22 luglio… a quel vestito nero che ho portato fino a qui, segnali di un passato che torna, ma non fa più male, anzi, lascia un sorriso. Il treno è un banchetto continuo di quelle porzioni uniche alla Fight Club, dormiamo, leggiamo e rimangiamo quelle derrate traghettate a bordo su carretti per i binari della stazione come le nostre valige e le nostre anime. Ci vogliono diverse ore, e da veri italiani, all’estero ci facciamo beccare dal capotreno, nello snodo dei vagoni a fumare. Socializziamo con l’inserviente che ci ripara nello sgabuzzino. Scopriamo che quel movimento delle sopracciglia, che dimostra esplicito interesse fisico, vale anche da uomo a uomo! …e giochiamo, con la nostra conquistata confidenza di compagni di viaggio che hanno già diviso insieme, l’eternità di questi densi venti giorni.
In prossimità della stazione ci prepariamo a fare una cordata di bagagli e a rinfocolare l’ego degl’uomini del nostro gruppo… non troppo, per il bene delle loro mogli.
- «Allora, noi uomini facciamo una cordata da sopra con le valigie, le donne a terra aiutano a tirale giù»
- «Perfetto, occhei, senti ma?! …non è una questione di fiducia sulle vostre mascoline capacità… ma dimmi una cosa… qual’è il nome dell’albergo?»
Omini, sono capaci di umorismo solo quando le battute non li deridono.
Tutto questo è stato superfluo, appena il treno ha fatto sosta, si sono presentati, fiutando odor di turista, dei soggetti dalle spalle quadre, modello manovale meridionale, che hanno condotto a terra le nostre pesanti valige ancora prima che ci si potesse capacitare dell’accaduto. Una volta sulla banchina del binario, si sono caricati sul cranio un centinaio di chili abbondanti per uno ed hanno percorso rampe di scale, codazzati dalle nostre facce incredule. Al pullman la contrattazione per la mancia, si parla in ordine di euro di quattro cinque euro. Giustamente alla fine cedi senza rivendicare il prezzo hindù, cosa cambia alle nostre tasche?! La fuga che hanno fatto al ricevimento del denaro rimarra stampata nella mia mente a vita, dovrei raffigurarla sulla carta di credito ora che ci penso.
Il Punjab è considerato la Svizzera dell’india, tutto è più ordinato, pulito, anche se autenticamente indiano. L’essenza del dualisimo, due poli opposti che convivono e si compensano. Come la sabbia della spiaggia al contempo bagnata e asciutta, uomo e donna diversi ma uguali, l’entrata e l’uscita, la domanda e l’offerta. Io ho sempre dei grossi problemi con questi concetti combinati, non vedo la diversità, comprendo la distinzione.
Insomma… avvolte capisco la distinzione… ho passato gli anni dell’università non ancora finiti, a chiedere: “Marcoantonio si, ok, ma quell’altro come si chiama?” poi qualcuno impietosito mi ha spiegato, dopo che probabilmente loro, loro, si sono laureati che uno era Marco e l’altro Antonio.
Probabilmente progredisco, faticosamente ma mi evolvo, sono riuscita a percepire la diversità tra la mia gamba destra e la sinistra, anche se ancora non ho capito dove mi pende la scoliosi. Un passo alla volta, magari di fianco.