10 ottobre 2006

UN FILO D'INDIA. New Delhi e la voglia di ridere.

21 agosto. Quello che è venuto dopo la grigia alba sul Gange a Varanasi, è stato un atto dovuto. La città sacra, la città della vita e della morte continuava ad offrirsi. Dovevamo coglierla. Dall’esperienza della mattina era stato selezionato un piccolo gruppo di compagni di viaggio, “intimo”, possiamo dire, o meglio “masochisti selezionati”. Si è aggiunta la mia saggia compagna di cicchino, che ha preferito le calde coperte alle umide acque e melme del Gange. Nello stadio di pre-assideramento da aria condizionata non potevo che ammirare tanta ponderatezza nell’essersi trattenuta al caldo.
Una volta disinfettati piedi e parti esposte al fluido organico con olio di the tree, ero nuovamente pronta per la città. Anche se, di assetto urbano mi è rimasta la voglia. Non siamo nemmeno arrivati ai ghat a piedi. Questo è un rimpianto. Non ho assimilato niente del tessuto cittadino, sempre se ne esiste una logica. Siamo approdati in un grande edificio, a pagare il nostro obolo. L’emporio statale, ex residenza del Maharaja, vitalizzato da inserti coloniali, dove ci sono state offerte danze, the speziato e possibilità di acquisto. Avrei raccolto su tutto, dagli enormi tappeti a filo doppio, agli zerbini scendiletto. Ho ceduto, avevo dato disposizioni che mi sequestrassero la carta di credito, ma i miei compagni di viaggio non si sono fatti difensori delle mie finanze. Ho trovato uno splendido bracciale antico per la mamma, che spero mi arrivi molto poi in eredità - veramente disinteressato come regalo - e uno, per il supporto della mia esistenza, fratello di questa dura vita :-).

Abbiamo lasciato la città di Yama per Nuova Delhi, tornando a nord con un piccolo volo interno, e alla nostra realtà occidentale, in silenzio. E il silenzio è durato. La capitale è lontana da quella consistenza di misticismo, dal rumore dell’acqua, dal brusio della vita, dalla rapidità delle persone. È uno spicchio d’Inghilterra, di occidentalità nelle Indie. All’aeroporto solita sofferenza nella ricerca del fuoco per le sigarette, ti sequestrano sempre tutto in quei palpatoi dei controlli. Cercare un cittadino dotato di accendino è un affronto alla loro ortodossia. Dall’autobus un dubbio comune si concretizza: “ma dove siamo, non si sente nemmeno un clacson, non ci hanno accolto i mendicanti?!”. Strade larghe, aiuole verdi, traffico ordinato, silenzioso, ampi edifici che se non fosse per le chiare incrostazioni indiane potrebbero essere in una periferia anglosassone come post comunista. Palazzoni, ponti, attraversamenti. Sempre indiani seduti all’indiana lungo la strada, ma “contemporanei”. Non siamo più in una sorta di medioevo, il volo è stata una macchina del tempo.
La mia risposta a tutto questo è una ilarità manifesta, risate sane e immotivate, dal niente e per niente, coinvolgenti e sconvolgenti.
Ma cosa ci sarà poi da ridere?!

Delhi è tante città insieme, è New Delhi, è Old Delhi. La nostra meta è la Delhi Mogul e la moschea più grande dell’India, la Jama Masjid. Gli arriviamo ai piedi, al Gate degli stranieri infedeli. Un’ampia gradinata ci fa da barriera, passiamo le guardie e decido di entrare niuda, senza il terzo occhio dell’obiettivo. Ma prima di abbandonare la mia appendice, scatto la foto al gruppo, cielo azzurro limpido, arenaria rossa e t-shirt colorate, sorrisi stanchi. Manco io, peccato, sarebbe stata una bella foto! :-)
Inutile ribadire la mia assoluta passione per le moschee, unici luoghi di culto in cui mi sento accolta, abbracciata, confortata. Qui lo spazio è immenso, famiglie abbandonate sulle gradinate dei portici di cinta, come una domenica di primavera al pratone delle Cascine. Uomini solitari in preghiera, assorti in un libro o dentro di sé. In terra, grano per i piccioni, stormi di chicchi neri che tornavano a riva come onde. In aria, rudimentali aquiloni giocano spensierati con strappi di nuvola lunghi, dai toni di giallo e di rosa, amplificando il senso di libertà. Strano da dire per una donna in moschea, questo sano ateismo mi salva. Adoro sedere in terra, baciata dal sole, sul marmo liscio e respirare, ascoltare il mio respiro e annusare questa religiosità che non conosco ma che arriva. Un momento speciale, una scena calda come una piumone d’oca che ti avvolge quando hai sonno.
Qualche notazione sul nostro abbigliamento, c’è chi mostra uno spacco di coscia. Non turbiamo oltre e ripartiamo, attraversiamo un traffico diverso, brulicante di bambini, mendicanti, rivenditori con i mostra sulla strada tutto lo scibile vendibile ma organizzati a merceologie. Niente concorrenza, stessi articoli uno accanto all’altro. Vedi? Non ci sono solo le nostre regole a gestire il mondo, qui tutto può essere anche l’opposto di come funziona da noi! Realtà incredibilmente diversa, la Old Delhi è India.
Albergo, assolutamente elegante. Mi sento sempre fuori luogo in questi ambienti chic con i miei abiti da abbandonare in loco. Il nostro bed team godrà della magnanimità del Guru, che a seguito dell’influenza di Tiziana, ci concede il benefit della Suite! La metratura della stanza è tale da contenere un paio di centinaia di indiani. Noi ci vivremo in tre per una notte. Avrei goduto volentieri della vasca da bagno e l’accappatoio, ma il tempo è tiranno, contraddizione in un viaggio di questo tipo. Tiziana prende sonno nell’arco di un secondo, le parlavo dal bagno, lei rispondeva, un attimo dopo, esco e… caput! Resettata e off, completamente! Riposerà, meglio così.
Pisolo pochi minuti anch’io prima della cena e karma o caso, sogno. Sogno di scendere da un minareto e di cadere dal tetto, come nel vuoto. Avevo letto sulla guida prima di entrare alla Jaima Masjide che si poteva salire, ma poi non ci ho più pensato, una volta dentro me ne sono scordata, non li ricordo nemmeno. Dal minareto il pensiero arriva immediato al muezim cieco de L’assedio di Lisbona di Saramago e lì si ferma, arenato. In effetti ero eccitata a questa visita in moschea, la più grande dell’India, ero pronta a velarmi la testa, a calarmi nel ruolo, ma non era richiesto e a scimmiottare i gesti degl’altri senza necessità non mi piace, sembra derisione.
Scendiamo alla ricerca del nostro tavolo nelle numerose salette che ospitano feste per bambini indiani, ritrovi di famiglie indiane, compleanni indiani, individui tutti grassi e paffuti. L’opulenza della ricchezza e le patatine fritte sono assaggi di occidentalità. La cena non trova particolare armonia e nemmeno il dopo cena, la compagnia è frastagliata in più tavoli e alla fine, gli highlander siamo io e Luca. Viziosi delle ultime Camel fumiamo e parliamo di massimi sistemi. Parliamo di specchi e di come ogni singolo riflette porzioni di altri, vicini e lontani, di come disprezziamo i nostri difetti negl’altri e come siamo attratti da quello che vorremo essere, dalle qualità che ci sono affini. Vomito le mie domande, cerco di condividere questi pesanti quesiti con il mio paziente e cauto interlocutore. Avrà la capacità di vedere oltre l’armatura. Mi stupisco sempre quando questo accade, spesso è invalicabile anche per me. Poi il mondo, la società come concetto astratto, l’ingordigia, la materialità e i sentimenti, l’intelletto, la misura, la diffidenza.
Le sigarette finiscono, per fortuna, ma i pensieri no, purtroppo.
Curiosità contro superficialità. La curiosità compulsiva contiene un velato dubbio di superficialità ma curiosità è anche sintomo d’intelligenza e voglia di crescere. Ci sarà un momento in cui il frutto portato a maturazione, potrà essere colto, anche un solo frutto? E l’impazienza è curabile? Sicuramente è raggiungibile un atteggiamento di piena libertà, in cui non esistono più impedimenti preconcetti e non voluti. È corretto porsi tante domande?
L’obiettivo è sentire con i cinque sensi e oltre.
Accendendo anche pancia e cuore, questo è proprio uno splendido viaggio.