Da “Veronika decide di morire” di Paolo Coelho, Bompiani 1999
Sull’Amarezza e gli Amareggiati
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(…) Attentare alla propria vita è connaturato con l’essere umano: lui conosceva molta gente che lo aveva fatto e che comunque era ancora in circolazione – ostentando innocenza e normalità – solo perché non aveva scelto un metodo teatrale come il suicidio. Gente che si ammazzava a poco a poco, avvelenandosi con quello che il dottor Igor chiamava “Vetriolo”.
(…)
Era curioso che nessuno avesse fatto riferimento al Vetriolo come a un tossico mortale, benché la maggior parte delle persone colpite ne avessero identificato il sapore e si riferissero al processo di avvelenamento con il termine di “Amarezza”. Nell’organismo di tutti gli esseri umani è presente l’Amarezza – in misura maggiore o minore -, proprio come alligna il bacillo della tubercolosi. Ma le due malattie attaccano solo quando la persona è debilitata: nel caso dell’Amarezza, la malattia compare quando si manifesta la paura della cosiddetta “realtà”.
Nella frenesia di voler costruire un mondo inviolabile per qualsiasi minaccia proveniente dall’esterno, alcune persone aumentano esageratamente le difese contro l’esterno e lasciano sguarnito l’interno. Da quel momento, l’Amarezza comincia a causare danni irreversibili.
Nel tentativo di evitare l’attacco esterno, avevano limitato la propria crescita interiore. Continuavano a recarsi a lavoro, a guardare la tv, a lamentarsi del traffico e ad avere figli, ma ogni cosa avveniva in modo automatico, senza alcuna grande emozione interiore - perché, in definitiva, era tutto sotto controllo.
Il grande problema dell’avvelenamento da Amarezza era che anche le passioni – l’odio, l’amore, la disperazione, l’entusiasmo, la curiosità - smettevano di manifestarsi. Dopo qualche tempo, all’amareggiato non restava più alcun desiderio. E non aveva voglia né di vivere né di morire: ecco il problema.
Ecco perché per gli amareggiati, gli eroi e i folli erano sempre affascinanti: perché non avevano paura di vivere o di morire.
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L’amareggiato cronico avvertiva la propria malattia soltanto una volta alla settimana: nel pomeriggio della domenica. Allora, non avendo il lavoro o la routine ad alleviargli i sintomi, capiva che c’era qualcosa di decisamente sbagliato: la pace di quei pomeriggi era infernale; il tempo non passava mai, e lui si ritrovava preda a una fortissima irritazione.
(…)
Dal punto di vista sociale, l’unico grande vantaggio della malattia era il fatto che si fose già trasformata in norma: il ricovero, dunque, non era più necessario, se non nei casi in cui l’intossicazione risultasse talmente forte che il comportamento del malato coinvolgeva le persone intorno a lui. Ma la maggior parte degli amareggiati poteva continuare a restare fuori (…).
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Di lì a poco avrebbe iniziato a stendere le annotazioni indispensabili al completamento della sua tesi, riferendo dell’unica cura capace di sconfiggere il Vetriolo: la consapevolezza della vita. Avrebbe indicato anche il medicamento impiegato: la consapevolezza della morte.
Lunatici
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Non sapeva quale fosse il rapporto tra i matti e la luna, ma doveva essere molto stretto, giacché si adoperava quella parola per indicare i malati di mente.
Non ho nessuna voglia di restituire questo libro. Ho voluto copiare alcuni brani sul mio quaderno e una parte riportarla anche qui. Non avevo mai letto niente di Coelho, a dire il vero lo snobbavo proprio. Ha quest’aurea da santone del XXI secolo, come se fosse l’unico scopritore al mondo della spiritualità, che per di più mercifica a ritmo di un libro l’anno! In più, ormai un po’ di tempo fa, m’era stato consigliato “L’Alchimista” da un persona con la quale ero in perenne conflitto, quindi, detto fatto, l’ho ignorato per anni. Poi, quando tutto si è abbastanza sopito, incuriosita proprio da questa mia mania di boicottare autori solo in relazione a malumori verso persone che ne hanno parlato bene, mi è capitato per le mani “Veronika decide di morire”. Era stato consigliato dal medico ad una persona a me molto vicina per indagare meglio il tema degli attacchi di panico.
Non è stata una lettura immediata e scorrevole, devo aver letto altro nel mezzo. Però la parte finale, e l’analisi dell’Amarezza come causa della malattia mentale mi ha molto interessato. Mi ha aiutato a capire meglio le fobie e come nascono. Fino ad ora non lo comprendevo. Nelle esperienze accanto a persone con questo problema ho cercato di essere comprensiva, ma più per educazione, per fiducia verso la persona e nella conseguente inevitabilità degli atteggiamenti, che per reale coscienza del sentire in queste circostanze.
Quest’analisi sull’amarezza è in parte realistica, siamo portati a difendere i nostri piccoli guadagni, raggiungimenti o posizioni a tal punto da isolarci e perdere coscienza dell’esterno, degl’altri e delle altre logiche. Conoscere e condividere è sempre un arricchimento. Certo se fatto concretamente e non come formula di facciata: cosa significa passare il tempo con qualcuno se in quei momenti non si lascia penetrare almeno qualcosa della propria autenticità? Se si rimane immersi nella propria immutabile e incontaminabile bolla?
Non consentirlo determina una desertificazione progressiva… difficilmente bonificabile. L’aridità rimane e pregiudica le relazioni. È un processo che si imbocca con estrema facilità. Basta poco, una delusione, una sconfitta, in un momento particolarmente debole e la prima cosa istintiva e “naturale” che ci viene di fare è barricarsi, tirare su saracinesche o mettere paletti mentali.
Quando si prende coscienza di questa situazione? Davvero la domenica pomeriggio? Io penso che accada in diversi modi. È facile che accada in modo irruento, cadendo in depressioni, malattie mentali, psicosomatiche, che volontariamente o spinti da qualcuno ti portano alle prime cure. Oppure ci sono momenti di lucidità che se magari coincidono con possibilità di raffronto, non necessariamente con il mondo esterno ma anche con il proprio passato, aiutano a constatare lo stato apatico del momento.
Tutto questo perché sono fortemente attratta da quest’universo, vorrei comprenderne i meccanismi più profondi. Non mi è mai capitato di non provare passioni, anzi, magari ne ho anche troppe e questo conduce comunque ad un simile stato. Le tante cose che mi interessano affogano nell’acqua alta delle mie aspettative.
La cura. Forse davvero solo la consapevolezza della vita. Non in quanto esistenza contrapposta alla morte, perché quella confido di non perderla mai. Consapevolezza della vita in relazione ai suoi molteplici tempi, nelle sue piccole cose, nei suoi valori, nei rapporti con le persone vicine ma anche con gli estranei.