05 settembre 2006

UN FILO D'INDIA. Bikaner, uomini e topi.

10 agosto 2006. Summit mattutino per verificare la fattibilità d’assistere al matrimonio dei tre fraelli con le tre sorelle. Alcuni dei miei compagni di viaggio, non sono chiaramente disposti a mettere in discussione la comodità di una dormita in un letto con la notte in autobus. Peccato! Sfuma la possibilità di assistere ad una scena bolliwodiana. Programma inalterato quindi, mattina al Forte, giro al mercato, pranzo con le gambine sotto il tavolo in albergo… a qualcuno le banane son venute a noia… e partenza nel pomeriggio verso Jaipur.
Junagarth Fort, Bikaner. Incominciano a venirmi a noia questi palazzi civili, questo sarebbe il quarto e non sembra nemmeno il più bello. Sembra abbastanza recente e ritoccato pesantemente. Sono snob, perché negarlo. Questo luogo non mi dice niente. Sgamo il corteo del gruppo con la guida e mi concedo una sosta all’aria aperta a guadare fuori, anche se il panorama non è un gran ché… nemmeno lui… sembra proprio una visita da dimenticare. Il corteo didattico prosegue, cerco di non perdermi, seguo il codazzo verso l’uscita e ad un certo punto mi ritrovo in un posto strano, interessante, inaspettato. Uno stretto corridoio color terracotta, ma le pareti non sono muri ma “jali”, gli intarsi a merletto che permettono di guardare senza essere visti. Sotto si intravede una stanza enorme, sembra contenga un aereo. Sorpresa da questo spazio interessante perdo di vista il gruppo e tento lo scatto di due foto. Tento infatti non sono venute! M’accorgo di essere rimasta sola e corro avanti un po’ stordita. Mi ritrovo a passare in piccoli ambienti, uno dopo l’altro, fino all’imbocco di una stanza rosa con una strana luce soffusa. Mi guardo attorno nessuno, poi dal niente si materializza un velo rosa, sotto un esile figura. Se non ho urlato è solo perché ero senza fiato. La signora sotto il velo mi indica la strada, non ci penso due volte, a grandi falcate procedo per un dedalo di stanze e scale strette poco illuminate. Seguo la luce e sbuco in un cortile aperto su grandi sale. Trovo Luca e Diego ritardatari rispetto al gruppo, concitata gli chiedo se hanno visto anche loro la signora vestita di rosa, ma no, loro non l’hanno vista. L’ho vista solo io. Ma l’ho vista davvero?! ? Strana attrazione dopo un momento di paura. Non potevo non pensarci. “Scusate, ritorno un attimo indietro, m’aspettate un minuto, venite a cercarmi se non torno”. Sempre di corsa riabbocco dalle scale strette in queste stanze che, viste per il senso opposto, non sembrano nemmeno loro. La signora non c’é. Avrò sognato davvero?! Come può un luogo passare dall’essere insulso ad eccitante?! Ritorno turista tra i turisti e per fortuna eccola, la signora in rosa. Deve essere un’addetta alle pulizie. La giornata ha virato, chissà verso dove. Ci raduniamo nel cortile. “Ti avevo persa”, “Mi hai ritrovato. Sai ho fatto un incontro interessante, una signora vestita di rosa, mi ha fatto uno strano effetto, impaurita e poi attratta”, “Magari l’avevi già incontrata in un’altra vita, eri già stata quì”. Eh, incitatemi pure!
Ci raduniamo nel cortile. Adocchio una foto interessante: tre funzionari indiani, o pseudotali, davanti ad una scrivania e alla loro montagna di carte svolazzante per la pala a soffitto. Il controluce e questo vizio che hanno di mettersi in posa, rovina tutto, peccato!
Partiamo con l’intenzione di trovare un mercato, ci facciamo portare in centro con i “tuc tuc”. Capisco perché hanno così tante divinità gli hindù, una per ogni giro nel traffico, ci voglion tante raccomandazioni. Quì la folla di motorini, api e bici è veramente feroce, incazzata calza a pennello. In gruppo diventa impossibile muoversi e l’indugio al bordo della strada diventa pericoloso. “Buttarsi, avanti adesso, tutti insieme!” Incito al suicidio di gruppo e penso a Veronica, sarebbe morta prima di attraversare, altro che ponte Galata ad Istanbul! Troviamo rifugio in un mercato dove i mezzi non entrano, oddio, diciamo che non viaggiano. Slalom tra i parcheggi e “teniamo a mente dei punti perché da questo labirinto non usciamo”. Paranoia da pollicino. Non devono essere abituati agli stranieri, e nemmeno interessati. Nessuno ci ha proferito niente, nessuno ha intenzione di venderci merce. Ci sono diversi scorci interessanti, uomini intenti a cucire a macchina, grassi commercianti a bivacco, colarate donne a scegliere stoffe. Cucire a macchina da noi è considerato un lavoro da donna. Qui, a quanto pare, no; si concentrano diverse macchine e lavorano in compagnia, ridendo e scherzando. Io sono assai preoccupata di perdermi in questo labirinto di colori. Prima di uscire da dove siamo entrati, ci affacciamo in un negozio dall’aria più europea. Sulla porta mi avvicina un ragazzino con una sporta gialla che strilla “naga, naga, pissipissibaubau, naga, naga”. Ci penso un po’, accanto a me ho qualcuno del gruppo, non ricordo chi. Naga, eppure mi suona familiare… poi arriva anche il compare del ragazzino, che posa il sacchetto a terra e tira fuori un piffero fatto con una zucca, ed inizia a suona. Naga. Piffero. La busta a terra si muove… bujanga-asana, il grande naga, già. “Ragazzi, io mi allontano… ”. Ho un vago presentimento. Sento strillare poi interviene il tipo del negozio, manda via il ragazzo. Si, vigliaccamente mi sono appartata, non ci tenevo a vedere da vicinissimo un cobra reale, il grande naga.
Ricomposti, un po’ scossi, affrontiamo il traffico oramai collaudati. Non compriamo niente, strano ma vero, nessuno ha intenzione di venderci qualcosa. All’autobus siamo accolti un gruppo di “gaga” indigeni, a pesca di turiste. “Omini” uguali in tutto il mondo, qualche spicchio di ciccia in più fuori e chissà che pensano!
Rientriamo in albergo per il pranzo. Io e Daniela non abbiamo fame e intenzionate a fare un giro nel parco del Hotel Lallgarh Palace, manchiamo subito i nostri propositi accomodandoci sotto il primo grande albero visibile dall’ingresso. Giusto tre passi, quando la terra chiama, chiama! Tre parole, giusto tre, e autonomamente, e senza nemmeno averne parlato prima, ci mettiamo a fare yoga. Quando me ne accorgo siamo entrambe in aditi-asana, aditi significa libera, estesa, è la madre di tutti gli dei, colei che benedice la vita e la natura. Tributo dovuto. “Da quanto tempo fai yoga?”

La tappa successiva si presenta impegnativa, Karni Mata Temple, il tempio dei topi. Ragazzi, questi credono nella reincarnazione, ogni essere vivente ha il diritto di vivere, anche i sorci! Un po’ mi agita come negarlo, camminare scalza incontro ai sorci non è certo la mia passione, ma voglio provare, perché negarsi quest’esperienza. Il piccolo tempio in marmo bianco è abitato da tempo memorabile da orde di roditori che rimangono inalterate nel tempo, immutabili in quantità. Fenomeno strano, studiato anche scientificamente. Scendiamo dall’autobus e ci accoglie un’atmosfera irreale, nessuno ci chiede niente, ne penne, ne rupie, ne sapone. Silenzio, nemmeno il clacson. Già questo trasuda irrealtà. Ci leviamo le scarpe e per fortuna ci sono concessi i calzini. Un primo portone, si passa in grande cortile aperto. Cammino a testa bassa e ogni tanto tiro su gli occhi. A destra una fontana, dei bambini giocano con l’acqua, i primi topi gli passano sui piedi, i bambini continuano indifferenti. Topi piccoli per fortuna. Velocemente passo il cortile, sotto un portico, a terra uomini stesi in siesta con gli inquilini del tempio che gli passano accanto e sopra. Altro portone, altro cortile coperto stavolta, attraverso un passaggio protetto da una balaustra bassa traforata. Guardo a sinistra, no proprio ora, proprio davanti a me una squadra di calcio di sorcetti decide di passare nell’altra meta campo, rallento, li faccio passare, dietro mi urtano, mi spingono avanti, ah ecco… tutti suoi miei piedi. Scatto indietro e trattengo il grido di schifo, riflesso incondizionato. Mi vergogno del gesto, per loro sarebbe una benedizione e procedo, avanti avanti, tra poco é finita, prosegui! L’ingresso della cella è occupato a terra da una madre con il figlio sulle ginocchia; il bambino ha la testa riversa all’indietro e la bocca aperta. I topini scodazzano avanti in dietro ad un soffio dal bambino. Davanti alla donna un grande piatto con il cibo a palline gialle, offerto dai fedeli agl’animali che altro non sono che i devoti reincarnati della patrona della città, Karni Mata, incarnazione di Durga moglie di Shiva. Per me possan essere chi vogliano, io ho già visto troppo. Valutazione lampo, così può bastare, direi di si! Giro sui tacchi e a capo basso sempre, in solitario stavolta, ripercorro i miei passi. Butto l’occhio a destra, un piatto d’offerte trabocca di topi, qualcuno è anche morsicato. Ho pensato: si mangiano tra loro, orrore! Accellero il passo, autobus, ietto i calzini e mi disinfetto bene piedi e mani. Impressionante. Niente di evidentemente sporco o schifoso, ma questo connubio uomini e topi è troppo. Indigeribile. Ho ancora stampato in mente i bambini che giocano con l’acqua e gli uomini che dormono a terra tra i roditori. Possono convivere in un solo mondo questo mio atteggiamento di ribrezzo con la loro tranquilla convivenza?! Surreale.

Lascio una sacca con maglie e pantaloni adoperati, appoggiate al tempio, vorrei regalarli a qualcuno ma mi vergogno a darli direttamente in mano, ho paura di ferire qualcuno. Per fortuna la busta è raccolta da una giovane madre che capisce e ringrazia copiosamente in direzione dell’autobus. La diffidenza iniziale della folla che sosta fuori dal tempio si scioglie. Una giovane coppia ci porge la piccola figlia in braccio. È Cristina la fortunata, addirittura bacia la piccola. Piano piano, “dire dire”, dicon gli indiani, la nostra riluttanza viene meno, le nostre remore da turisti asettici si sciolgono, i riflessi incondizionati sono più forti. I bambini ne sono il mezzo.
Ancora bus, ancora Bhagavaghita, ancora Arjuna e Krisnha, chiacchere e pennica. Con molto ritardo, quasi alle 22, siamo a Jaipur. L’albergo non regge il paragone con il precedente ma funziona e c’è tutto, o quasi. Al rientro in camera troviamo Daniela che si prepara a dormire beatamente in un letto senza rete, materasso a terra. Le risate non hanno freno e risuonano per tutto il piano. Le giornate non finisco mai, una volta in camera comincia la dimensione da compagne di scuola, fatta di risate gioiose e convulse che mutano in confidenze.