16 settembre 2006

UN FILO D'INDIA. Fathepur Sikr e la mosca al naso.

15 agosto. Ferragosto. Anche in India é festa a Ferragosto. Certo un indiano non pensa ai gavettoni sulla spiaggia o forse si “nin sò”, di sicuro no all’Assunta, né al Palio di Siena. Per un indiano il 15 agosto è il giorno dell’indipendenza e ricorda quel momento del 1947 in cui venne ufficialmente proclamata. Diverso dal nostro 25 aprile, ha una forza maggiore. È così lontana la storia del novecento indiano da quello italiano… il dominio coloniale, la prima guerra mondiale a fianco degli inglesi, poi Gandhi e il movimento di non collaborazione, Nehru che lo affianca, la marcia del sale, gli scontri tra indù e mussulmani, il Pakistan e gli esodi. Dopo Nehru, poi Indira, il tempio d’oro e l’assassinio, poi Rajiv e di nuovo sangue e adesso Sonia. Sonia.

Dalla finestra della stanza si possono vedere diverse celebrazioni, in una scuola, nel cortile di una caserma. Quant’è inglese tutta questa liturgia di liberazione… Quant’è tanta e quant’è varia quest’india!? Ieri abbiamo toccato l’eleganza e la voglia di darsi un certo tono, con la cenetta all’hotel Hiltol con Darren e famiglia (Darren il nostro uomo ad Agra) e stamani assaggiamo la forza patriottismo indiano. Per fortuna che in corpo c’è buio come si dice in toscana! E per fortuna che non siamo stati avvelenati da quel beverone chimico che spacciano come vino indiano!
La mattina parte con il seguente programma, prima tappa Keoladeo Ghana Nationali Park. Si tratta di uno dei parchi ornitologici più famosi dell’India. Ma siamo poco fiduciosi di vedere qualcosa d’interessante, agosto è la stagione dei monsoni e gli animali non si mettono in mostra. Arriviamo all’ingresso, ci procacciamo il beveraggio, nemmeno s’andasse nel deserto, turisti, quando facciamo così siamo proprio turisti! Con le nostre bottiglie d’acqua ci collochiamo a coppia sui rickshaw, io e Tiziana siamo una coppia fissa, abbiamo appurato ormai che i nostri deretani sono complementari nell’insieme della seduta del mezzo… e partiamo. Il nostro locomotore è giovane e carino, è molto bravo e attento a farci vedere quei pochi, pochissimi animali che troviamo lungo il tragitto, un iguana, un martin pescatore, aironi, tartarughe ecc. Ma la cosa più bella sono le farfalle, inafferrabili! Sono tante, diverse, enormi e colorare e per niente fotogeniche! Non si fermano un minuto davanti all’obbiettivo, sono inclementi ed impassibili del mio desiderio di portarmene a casa il ricordo. Le odio e le sogno la notte. Le invidio, nella loro leggerezza e facilità! Provo anche a stare ferma con l’obbiettivo puntato su un ramo per vedere se per caso, una distratta passasse di lì, vicino, magari non proprio nel quadro… nisba! Nunnevogghionsapé! Lungo tutto il tragitto, siamo affiancate, circondate, quasi assediate da una moltitudine di bambini e ragazzi che, essendo oggi festa, non sono andati a scuola e hanno pensato bene di venire a deridere ed importunare turiste italiane al Keoladeo Park. La giornata è grigia, come le loro divise, ma i loro volti sono illuminati, dagl’occhi e dalla voglia di arrivare, di diventare, di scalare il mondo. Esagero? Può essere… troppi condizionamenti letterari, di questo nuova potenza che sarà l’india per la forza della sua gente. La foto che ho scattato di alcuni di questi ragazzi mi esaltava ancora prima di vederla stampata. È la mia preferita. Citando il povero Pierangelo Bertoli, colonna sonora della mia infanzia, “ con un piede nel passato, ma lo sguardo dritto e aperto nel futuro”. Quindi niente uccelli, aimé! ma una bella foto. Qualcuno, non rassegnato a questo mancato contatto animale ha visto bene di avanzare una richiesta al tour leader: “ora tu fai i lucertolone?! Altri animali non si son visti!”. Giustamente ognuno si accolli le proprie responsabilità! All’uscita del parco, i bambini in bici guardano incuriositi e senza troppi riguardi, da vicino, come miopi, senza domande.
Ripartiamo in autobus verso Fatehpur Sikri, la Città della vittoria. Questo sito a sentire il lucertolone, pardon, il tour leader, ha la stessa valenza d’impatto emotivo del Taj Mahal. Mah! Mi voglion proprio far prendere un collasso?! Si tratta di un’edificazione ad hoc da parte di Akbar, il raffinato imperatore Moghul, che volle materializzare il suo sogno di città ideale, applicando alla lettera i dettami religiosi. Dice ci siano nei libri sacri dell’induismo con indicazioni precise per le realizzazioni urbane, come mi piacerebbe dargli un’occhiata! (Oh ma qualcosa che mi faccia schifo mai?!) All’ingresso siamo aggrediti dai venditori di tuttounpò, facciamo i biglietti ed entriamo in un primo ambiente, un portico enorme con un giardino al centro, di un verde iridescente, quasi finto. Tutto è ordinato, preciso. Attraversando i numerosi ambienti si percepisce la base di un progetto unitario, si sente che la città non ha avuto vita però. Infatti, il sito non era approvvigionato di acqua e per questo la corte di Akbar vi ha soggiornato molto poco, trasferendosi a Lahore. Non che Akbar fosse uno stupido, la scelta del luogo fu dettata da un fatto importantissimo (ancora più della presenza d’acqua!) l’incontro con il santo sufi Salim Chishti. Infatti il santo predisseall’imperatore, in questo luogo, la nascita di un figlio maschio che proseguisse la sua dinastia. Avverandosi la profezia dopo poco Akbar vide bene di non lasciarsi sfuggire l’occasione di stare vicino al profeta, quindi trasferì tutta la corte con le sue numerose mogli. Si, dovevano essere diverse, sembra che ne avesse una per ciascuna religione, indù, mussulmana, cristiana, ecc. un modo per non far torto a nessuno. Sarà però che il sole non ha forza oggi, almeno a luce si lascia desiderare, c’è quella foschia da afa, le foto non rendono, gli edifici non staccano tra di loro, la pietra rossa tace. Fino alle stalle, gli ultimi ambienti, i più insignificanti allora, ma oggi gli unici che vivon di chiaroscuro.
Da lì usciamo fuori, lasciamo gli ambienti di corte per quelli sacri della moschea e della tomba del sufi. In quei 50 mt che separano i due complessi, veniamo adottati ciascuno da un bambino. Ciascuno di noi ha il suo piccolo indiano che individua tra le tante parole multilingua in suo possesso l’italiane e le propina a disco continua. Ci leviamo le scarpe in cima alla grande scalinata che conduce ad uno dei quattro Ivan d’accesso. L’ambiente dentro è enorme, una piazza d’armi esagerata circondata da portici in arenaria rossa, spezzati dall’accesso alla moschea, Jami Masjid e dal candido mausoleo, cenotafio di Chishti. Il mio angelo custode, Said, indica tutti i posizionamenti dei miei prossimi passi. Tento di fargli capire subito che gli darò soldi ma lui a questo non crede e mi rimane a fianco. Nemmeno il gesto insulso che farò appena entrata lo dissuaderà dal venirmi dietro. In un contesto un po’ caotico, tra gli schiamazzi dei bambini/custodi, la guida che parla e ci illustra il luogo, i miei occhi che corrono attorno a capire se ha davvero questa valenza emotiva descritta e la folla di turisti indiani che ci spintona, una mosca, una lurida mosca indiana, mi si avvicina alla narice sinistra e vede bene di passare troppo vicino. Tanto vicino che in quella frazione di secondo che dura un ispiro mi si schianta alla radice del naso, in quel punto di valico che porta alla gola. Tossisco all’impazzata, provo a soffiarmi in naso, nel delirio trovo anche un fazzoletto, un po’ di contegno siamo in India non al giro d’Italia! Poi alzo la testa, disperata, vedo Tiziana con un goccio d’acqua nella bottiglia: “me la presti? Ho una mosca nel naso!”. La ragazza ha enormi qualità comprensive del genere umano, passa la bottiglia e non mi fa domande. Mi metto alle spalle di tutti, con la testa fuori dal portico, inclinata sulla sinistra, inizio a far passare l’acqua dalla narice destra piano piano a piccoli sorsi. Tutto questo è già difficile farlo nel bagno di casa con l’attrezzatura giusta, lo è ancora di più con lo stuolo di bambini/custodi radunati davanti a te a fare “no! No!” e gesticolare, indicando con il pollice che l’acqua si porta alla bocca e non al naso. La scena sarebbe stata estremamente divertente: un’occidentale con una mosca dentro al naso, che tenta di liberarsene con la pulizia delle narici e un gruppo di bambini dediti alla caccia di monete che lasciano per un momento il lavoro per far capire, a gesti, alla sventurata, che l’acqua arriva meglio se passa per la bocca invece che per il naso. Tutto questo sarebbe stato divertente se quella non fossi stata io, e la mosca non fosse stata indiana. Bene dopo questo show per indigeni, per fortuna nessuno dei miei può riportare la scena, dopo tutto questo, cerco di seguire il gruppo e le spiegazioni della guida. Ma l’apparato respiratorio irritato m’impedisce una lucida presenza sul pianeta terra. Sonia chiama Fatehpur Sikri! Sonia chiama Fatehpur Sikri! …E Fatehpur Sikri risponde. Valicato una serie di tombe in terra di cui ricordo poco, meno male che Said non mi ha abbandonato, riesco ad arrivare al candore della tomba del sufi. Un ambiente quadrato che conduce alla cella con le spoglie. Ecco lì, la magia del luogo, l’emozione paragonabile al Taj Mahal. Inaspettata, insospettabile. L’odore di gelsomino jasmin, nell’aria, le jali alle pareti che raccolgono questo spazio mistico, l’esigenza di toccarle, di passarci le mani, di mettere i diti tra i fori, di guardare fuori, di strusciarci il naso. A quel punto ero libera, ero già stata catalogata come pazza quindi… Già, il naso pulito, aperto e libero dalle mosche e amene impurità, poteva cogliere amplificato quel profumo. Un pensiero assurdo, la mosca, un segno, il modo per arrivare a respirare più profondamente questo mistero, questa magia?! Zavorraaaaa!!! Qualcuno ancori i miei pensieri! Camminando a 10 cm da terra metaforicamente, ma materialmente saltellando sul pavimento caldo di sole, approdiamo alla moschea. Ah, l’ho già detto vero? Si l’ho già detto. Adoro quest’aria di comunione, collettività che si respira. Luogo si culto aperto alla fruizione di tutti, di tutti gli uomini certo, con tanto di libri da consultare, spazio per sonnecchiare, pregare, chiacchierare… ci godiamo qualche minuto a sedere. la moschea è il ventre di arenaria rossa del portico che frontalmente all’ingresso si gonfia e accoglie le cerimonie religiose. Riprendiamo il giro dei portici, in solitario, con Said che mi controlla da lontano, raccolgo un bastoncino di incenso, jasmin, altro segnale. Continuo uscendo dall’ingresso per gli indigeni a guardare il panorama dall’alto della grande scalinata d’accesso. Potrebbe essere l’Umbria come paesaggio, sembra la veduta della valle del Clituno quando si scende da Poreta. Come dire che mi sento a casa, ma anche questo forse è superfluo.
“Questa è l’India, un pezzo di Islam, perfetto come alla Mecca, ma in un mondo Indù”.

Ci dirigiamo verso l’autobus e il momento dell’addio ai nostri angeli custodi è straziante, le richieste asfissianti. Offendo Said con le poche monete che avevo in tasca, dategli ancora prima del tuor guidato, l’ho offeso a tal punto che me le ha ridate.

Sul bus per il rientro, tanti pensieri. C’è qualcosa di diverso nel mio rapporto con gli altri, tutto fila liscio ma é un’apparentemente armonia, colgo qualcosa che non quadra, non individuo cosa. Prima non c’era, come una sorta di gelosia, una sicurezza a momenti maliziosa, un’inadeguatezza successiva, un prossimo irruente desiderio. Non riesco a parlarne con me, figuriamoci con gl’altri. Questa mia “impronta al sentire” lascia perplessi i miei compagni di viaggio, si percepisce nelle cose che dico, nella conversazione tiro sempre fuori qualcosa che ammutolisce gli altri. Chissà cosa penseranno, comunque tollerano e accettano.
È quello che farò anch’io, lascio cadere come qualcuno mi suggerì a suo tempo, quei coltelli nello stomaco, che troppo spesso giriamo con le nostre stesse mani.