11 agosto 2006. Giornata iniziata troppo presto, prima del suono della sveglia. Aprire gli occhi senza l’intervento di qualcosa di esterno e farlo troppo presto è l’annuncio di una giornata anomala. Sulle prime l’ho presa con la luce, le tende spesse non erano tirate e la luce filtrava forte annientando i colori della stanza, riducendoli ad un’unica tonalità azzurra. Sembrano tutte uguali le camere d’albergo con quella luce mattutina, quasi familiari in questa loro ripetitività. Non ho nemmeno provato a riaddormentarmi, Morfeo se ne era andato. Sotto la porta avevano lasciato il giornale. Lo porto con me in bagno e guardo le figure, leggiucchiando i titoli. Non è come leggere un quotidiano in italiano ma l’idea di eventi catastrofici è evidente anche dall’inglese che non conosco. Doccia, lettura della guida sulle tappe della giornata. La camera piano piano si sveglia e le mie coinquiline acquistano la parola. Passo il giornale a Tiziana che conferma l’idea che mi ero fatta, attentati sventati a Londra. Scendo per la colazione, non vedo ancora nessuno di noi in sala, solo indigeni, coppie, uomini d’affari. Provo a fare due passi fuori ma gli sguardi curiosi mi limitano il percorso al pezzo davanti all’albergo. Cicchino a digiuno. Qualcosa non quadra, non è regolare. Colazione, il gruppo si riforma e la compagnia si anima.
La prima tappa della mattina è Hava Mahal o “Palazzo dei Venti”, un edificio fatto realizzare dal Maharaja per le dame di corte, una quinta in arenaria rossa e bianca traforata con jali. La possiamo vedere da una terrazza di fronte e vi accediamo scavalcando la stratificazione di bicchieri e pentolini di un rivenditore di te. Devo dire che l’edificio è bello ma la sosta è stata particolarmente insignificante.
Da qui, ci spostiamo verso l’osservatorio astronomico del maharaja Jai Singh II, Jantar Mantar. Andiamo a piedi dal parcheggio dell’autobus, seguiti da un codazzo insistente di venditori, dame in legno, braccialetti, elefantini con gli specchi. L’osservatorio é un giardino con curiose costruzioni che servivano per leggere la posizione degli astri e compilare oroscopo e carta del cielo. Il sole si concede a saltelli e in cielo scorrono gonfie nuvole. Con un atto di forza riesco a mettere insieme il gruppo per una bella foto, che poteva migliorare con la mia presenza… ma non si può avere tutto dalla vita!
Devo dire qualcosa a favore dell’impianto urbano di Jaipur, chiaro, per la prima volta leggibile. Jaipur, la città rossa o “la città di Jai”, è una città recente, fondata dal maharaja appassionato di astronomia nel 1730 circa, seguendo le sue teorie architettoniche estrapolate dai trattati indù. La città è cinta da mura e ci si accede attraverso 10 porte, all’interno si ha la percezione di una città ordinata, scandita tramite ampie strade maestre in grandi isolati quadrati. Al centro gli edifici del Palazzo della Città e lungo gli assi principali ordinate botteghe disposte per merceologie.
Il City Palace, vuoi per forma, vuoi per il colore sembra una grande casa cantoniera. Di interessante c’è il cielo azzurro terso con le nuvole grandi, macchie bianche che scorrono veloce rincorrendo il monsone in altre città. Note di colore, le giare metalliche con cui Jai trasportava l’acqua del Gange, dice che bevesse solo quella... Ma la visita si fa interessante e ci prende un po’ di tempo quando entriamo nella parte delle miniature. Si riesce a leggere diverse scuole o tendenze, quelle bidimensionali quasi naif o quelle con il gusto per lo sfumato soprattutto degli incarnati.
Nel pomeriggio shopping convulso, lo dicevo io che già dalla mattina c’era qualcosa che non andava, poi sfoga… toglietemi la carta di credito! Al negozio di gioielli, incontro Shyam, un commesso molto carino che cerca di intortarmi per bene ma che alla fine mi fa uno sconto interessante. Shyam è anche il nome del personaggio del romanzo che ho letto prima di partire, che coincidenza. Lo shopping dall’argento prosegue nel tessile. Qui il dilemma è tra il rosso e il verde. Ma sembra che questa vacanza sia verso il colore dell’erba e del chakra del cuore. Onice verde e sari verde e oro, ovviamente tagliato ad abito, chi potrebbe ricordarsi tutti quei drappeggi! Non mi sono mai fatta fare un abito su misura ma sembra che qui debba sperimentare tutto!
Luogo very very hindù per il pranzo merenda, tanto che qualche battuta di troppo ha rischiato di farci passare direttamente alla merenda cena. Sono contenta di aver scattato le foto alla cucina solo dopo aver ingerito le gustose pietanze. La paragonerei al posticino delle padelle nere di Barcelloneta… per digerire, non senza preoccupazione dei risvolti, passeggiata alla ricerca di un mercato. Forse li nascondon bene, o forse non ci sono ambienti chiusi adibiti a mercato ma abbiamo soddisfatto l’esigenza con i numerosi negozi sulla strada. La luce al tramonto si è fatta interessante. Più dei carichi di merce riversati in strada dai negozi, la carreggiata era interessante per la folla, i volti e i mezzi di trasporto agitati che animavano la sera. Il ritorno in motorishaw è stato interessante, foto di uomini stanchi, giovani donne sorridenti, bambini liberi.
La sera abbiamo fatto un incursione al tempio, al Govinda Deva Mandir, per assistere e partecipare alla funzione della sera, la puja. Incuranti della nostra presenza, irrilevabile tra l’altro in quella folla, siamo stati nel mezzo della gente acclamante il bramino, che dalla cella centrarle porgeva alla divinità i vari elementi naturali. Abbiamo imitato i loro gesti, rendendo evidente la nostra voglia di un contatto attivo e siamo stati compresi ed accolti a condividere cibo e parole. Un tipo si è anche fermato a farci vedere una sorta di pranayama che svuotava tutto l’addome dall’aria. Incomprensibile cosa volesse dirci, ma è stato interessante. Un primo approccio alle funzioni religiose piacevole e sentito.
Non contente della nostra giornata densa, io e la rossa compagna di stanza, abbiamo tirato notte a congetturare sull’India e ciò che tira fuori da ciascuno, raccontandoci ed aprendoci un po’ di più.