19 settembre 2006

UN FILO D'INDIA. Urka, che stelle a Orcha!

16 agosto. Lasciamo Agra che ci ha ospitato per ben due notti, senza troppo dispiacere, almeno da parte mia… è una grande città, non cede molto della sua “India”. Prima di montare sul bussino, riesco a lasciare ad una signora le mie magliette e i miei pantaloni usati, sempre con il solito imbarazzo di chi non vuole offendere nessuno… tanto che presa dal panico cerco la porta dell’autobus sulla destra, come se la guida fosse a sinistra! Panico per due secondi netti, ma panico vero?! Oddio! Mi hanno lasciato a terra! La nostra meta è Orcha, via Gwailor e ci fermeremo a visitare, città e palazzi.
Ancora strada, ancora paesaggi. Quante mondo scorre da questi finestrini, tante diversità. Capanne di paglia somiglianti ai nostri fienili sono abitazioni dignitose, con tanto di recinzione e giardino. Case di mattoni crudi, una vicino all’altra per sorreggersi a vicenda. Cemento armato con i ferri a vista come nel nostro meridione, ma con quella gioia del colore in più dei murales pubblicitari, che non sono messaggi d’acquisto ma arredo urbano. Distese di sabbia, dune, alberi e cielo, nuvole e cielo. Vorrei fermare tutto questo, vorrei respirare tutto questo, mangiarlo e non cacciarlo più dalla mia pancia, dai miei occhi. Poi come dire, niente si crea e niente di si distrugge, da tutto questo, anche dalla scomoda posizione accartocciata che tengo sul quel nascosto seggiolino, qualcosa fiorisce e come nelle canzoni di Vasco “nascono da sole, vengono fuori già con le parole”. Nessuna pretesa, fermo solo quello che sorprendendo anche me mi è passato per la testa, una dichiarazione di intenti:


Vorrei essere una stella,
per mirare il mondo dall’alto.
Vorrei credere alle cose belle,
a nient’altro.
Vorrei salire su un ramo,
volare via.
Vorrei nascere ancora,
tornare poesia.


Finalmente si avvista Gwailor ed è proprio come dice la guida, eh però! Veritiera questa Routard. Cito letteralmente “la posizione più inespugnabile dell’India occidentale”. È proprio così. Un’increspatura della piatta campagna merlata da alte torri e rafforzata da costruzioni, per una considerevole estensione. Respiro aria di casa, sembra un insediamento da crinale del mio Appennino centrale. Anche se questa è una cresta che nasce dal niente e dal niente è circondata, inespugnabile direi. L’autobus costeggia il fronte che la città ci ha mostrato e gli arriva al fianco da basso, passando per la città nuova, fatta di disarmonia. Il nostro ronzino penetra, con noi sopra, le mura dalla base e varchiamo la soglia di un’altra dimensione. La strada arranca tortuosa in salita, tra costoloni di roccia gialla ocra, levigata, scolpita. È talmente stretta che non riusciamo a vedere, figure, colossi, cosa sono?! Dopo, pazienza. Scendiamo dal mezzo affaticato e il sole ci arriva diritto, senza pietà. Aria però, Vayu, il dio del vento ci tiene la mano. Il cielo è terzo, azzurro, l’ombra rivela le volumetrie di questa abbandonata regale città. Così come Fatehpur Sikri, anche all’origine di questa città c’è una grazia ricevuta da un uomo. Suraj Sen, capo della comunità insediata qui vicino, afflitto dalla lebbra, si trovò a passare di qui in una giornata di caccia e dissetandosi al pozzo custodito da un eremita guarì dalle piaghe. Gwailor fù fondata come segno di riconoscenza e porta il nome dell’eremita. Nel corso della storia fu sede delle maggiori dinastie succedutesi in India nord, rajput, mogul fino agli inglesi. Il palazzo del Maharaja che ancora vi abita è splendido, originale con le sue smaltature azzurre e gli elefanti riprodotti sul cornicione. Non lo visiteremo, oggi è il compleanno del padrone e noi non siamo invitati. La città è estesa, passiamo diversi ampi ambienti costruiti e abbandonati, cortili immensi e vissuti da alberi esagerati, torrette e cielo, cielo e luce, luce e ombra. Il percorso che facciamo dentro la cittadella è ampio, arriviamo fino al fronte opposto a quello che abbiamo visto arrivando e davanti a noi ancora una piatta vallata, di lato lo scorcio del fronte del palazzo con l’accesso principale. Traguardiamo la direzione della nostra prossima meta, due templi indù, detti Sas bahu, della suocera e nuora, ma non ho capito bene perché… ripercorriamo i nostri passi e lì cedo alla pietra. Non ho rubato nemmeno un sassino, stavolta, giuro! Ho solo consumato pellicola ad immortalare una muratura, ampia, estesa, densa di storia, di tagli e cuci di pietre, di segni si scalpello. È più forte di me, mi ricorda la Podesteria di Calenzano, e l’indagine di ogni pietra che tengo sopra il letto.

Riprendiamo il nostro “veicolo”. Certo, siamo proprio umani e non divinità… le varie forme del pantheon hindù, in quanto il dio è uno anche se non sembra, hanno i loro “vahana”, i loro “veicoli”, mezzi di trasporto. Spesso sono animali come il cigno per Brahma, o il toro per Schiva, Ganescha il topo, ma quello che preferisco è Garuna, metà uomo e metà uccello. Mi piace per l’improponibile asana yoga ispirata alla sua figura, è una posizione di equilibro, avambracci intrecciati e mani unite, in piedi ginocchia accavallate e piede fissato dietro al polpaccio, tutta la forza e la sfida del re degli uccelli. Insomma ci accontentiamo di questo fido ronzino, che per amor dell’arte, ci lascia a metà di quella stretta strada che abbiamo percorso in salita e ci lascia ammirare questi colossi scolpiti nella roccia, queste enormi statue jain che custodiscono la rampa di accesso come giganti di pietra.

Qui nella pausa cicchino pre lungo viaggio ricevo devastanti squilli senza risposta da mia madre che prima di ricaricarmi il telefono ha visto bene di dilapidare tutta la ricarica rimasta con telefonate che le partivano senza principiare una conversazione. Dovere di cronaca, un giorno mi può servire come giustificazione di non aver chiamato prima! Sosta ai due templi della suocera e della nuora, mah! Assomigliano molto a Ranakpur nella cesellata decorazione. Ma sono più piccoli, con una umanità. Le aperture alte sembrano accoglienti nicchie per curiose fotografe, fammi vedere… si, si, qualche scatto interessante, ma soprattutto ottimo rifugio dal monsone che avanza, lo si vede arrivare dall’orizzonte oscurato e scaricare fiotti d’acqua su di noi. Aspettiamo che abbia finito e ripartiamo verso il tempio del viaggio di nozze Bha! qui mettan dei nomi! Si dice che i novelli sposi venivano a passar qui tre giorni assieme ad un istruttore… lo dico io che fa fatto bene! comunque il Teli-ka-mandir è diverso dagl’altri, è alto e compatto, con una decorazione a cerchi concentrici tipo collane al rovescio. Davanti il tempio sikh recintato e candido, di fianco la vasca/cisterna della leggenda, visto tutto, partenza verso Orcha!
Arriviamo anche abbastanza presto, le 19 in albergo, penso non sia mai successo, come inganneremo il tempo?! La provvidenza, che non so a quale figura hindù associare, ci aiuta: la piscina! L’albergo è notevole, le camere si affacciano su due ampie corti interne, quella centrale con un giardino modello monastico, l’altra godereccia, con piscina e lettini. Da qui si passa in logge e corti più piccole, passaggi di accesso alle camere. Bagno, non c’è motivo per non farlo… manca il costume?! Già qualcosa si trova. Biancheria nera e pareo fino al bordo vasca poi una volta dentro chissefrega! Stanza 128, numero dei becchi +1. Segnale?! Arriviamo a questo cortile interno passando da un arco arabo, e da lì tramite un portico con sedie e tavolo in vimini… woww… porta con quei lucchetti da diario segreto… la camera é una piazza d’armi! Senza esagerare 100 mq con due lettucci sparuti al centro, divano con tavolino fumo, frigo, tv, scrivania… e l’angolo narghilé! Ehehe davvero un rialzo della dimendione di un letto matrimoniale con materasso, sotto una lanterna colorata e davanti ad una finestra! Damilleeunanotte!!! Antibagno con armadio wowww, bagno, yiuuuu c’è nessuno là in fondo?! Ohhh che bello il lusso dopo 14 giorni di girovagare! Via costume e piscina! Qui il nostro tour leader non si è potuto esimire dalla richiesta che la nostra Daniela ha avanzato appena il giorno prima: fare il lucertolone! Gozzovigliante sosta nell’acqua e picevole cena rifocillante. Per la prima volta vedo un bel ragazzo indiano, per un palato di gusto occidentale, il classico tipo “finto ciattrone”, un sandokan dei nostri tempi con jean da diverse centinaia di euro. Bello, nemmeno più di tanto, cmq un tipo come si dice. Lo seguo con gli occhi, come andare in bicicletta, non si scorda mai! …e lui se ne accorge, passala cena, la mia e la sua, ma cosa fa? Risponde!?
Il tour notturno per la vittà salta a favore dello “svacco” in piscina, appropriatamente da Casta Maiali. No, non è una quarta casta, è solo in larga misura un riferimento di appartenenza coniato dal nostro tour leadere per identificare alcune accentuate caratteristiche del genere umano maschile. In questo caso l’accezione è al senso più ampio e ozioso del termine. Io diserto la lezione sul nonricordonemmenoche per posizionarmi a guardare il cielo e contare le stelle cadenti. Ognuno si diverte come può. Io d’agosto mi diverto così, dalla notte dei tempi, non può passar l’estate se non mi fermo, una notte almno, a guardar cadere le stelle. Non è questione di desideri, non esprimo niente se non lo stesso, generico, desiderio di felicità. Sono attratta terribimente dal cielo stellato. Mi spalanca gli occhi, mi ipnotizza schiena a terra e naso all’insù. Certo avvolte è una scusa, ma non qui non stasera. Dirigo il lettino verso la porzione di cielo che mi sembra più in ombra, porto le mani strategicamente agli occhi per difenderi dalle luci laterali e aspetto. Aspetto, aspetto, aspetto e poi: “vista!” Al passaggio della stella e della sua scia, urlo, decisamente. Un coro:“Oh Sonia?!”. Si sono impauriti, si stupiscono. Certo loro non giocano, sono da sola, e poi anche loro, “Ohsonia”… uff è un tono che suona spesso in compagnia. Mi ritagliano un ruolo e poi se ne stupiscono. Io aspetto, e ancora e ancora e ancora… alla seconda stella contengo il mio grido, mi rammarico di giocar da sola, ma il gioco è solo pretesto per questo bagno di cielo. Finisco anche le sigarette, ma questa sera sembra non importare. Un pensiero alle stelle turche dello scorso anno, alle scie rosse che lasciavano del buio deserto di Goreme e alla mia incoscienza, all’anno passato e alle difficoltà superate, alla forza d’animo e alla volontà di oltrepassare il limbo. Quest’anno è finito, come un anno accademico ad aprile, con le ultime interogazione, poi fino a giugno ho vissuto di rendita. Adesso seminiamo per il futuro, settembre! Ancora stelle e poi i saluti, la buona notte dei più. Rimaniamo gli irriducibili, prima in tre, poi due, facciamo anche due passi a vedere la luna dalla parte opposta che illumina giardino e templi in lontananza, poi riprendiamo la mia posizione a naso all’insù, per l’ultima stella, la conlcusiava.
Gli highlander delle stelle.
“Vista?! L’hai vista?” “Si lassù” “Corta ma intensa.”

Quando sei stella non importa quanto vivi, quello che conta è la forza con cui illumini il cielo, la tua luce.