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Al baretto dell’aeroporto cedo a quello che non ho potuto fare all’alba al Tempio, mangio samosa*, fagottini dorati di verdura fritti in una pastella croccante e friabile, ovviamente ben conditi di spezie. Dal seggiolino del volo interno, riesco a malapena a scambiare due parole con iniziaconEmanonricordoilnome per poi addormentarmi ininterrottamente, fino a quando la squadra di calcetto dei figli del mio vicino di seggiolino non hanno iniziato a stranazzare. Rientro in me solo quando metto i piedi sulla scalette dell’aereo e tocco sulla pelle i 25 gradi dell’aria del sud. I miei piedi nudi dentro le ciabattine estive riprendono un colore vitale e gustano, come una premiata ricompensa dopo il freddo dell’aria condizionata, il tepore naturale di un inverno all’equatore. Madras, Chennay, ci siamo finalmente!
All’autobus altri due compagni di viaggio, lei, soprannominata immediatamente Hilton, conseguentemente alla sua prima parola in apprezzamento sugli standard di pulizia negli alberghi, lui, Frank, ci recupera con il classico cartellino da autista in cerca di polli prenotati.
Ricarichiamo tutto sul bus e partiamo per il primo tempio, il Kapalishvara Mandir a Mylapore. Ho letto qualcosa sulla guida, ma non ricordo cosa… lungo la strada ritrovo quello che è il mio concetto d’India, mucche, baracche e dissesto dignitoso, famiglie intere in motorino, negozi sulla strada, banchini improvvisati che vendono di tutto, vita nei fiumi, clacson e Ambassador, richshaw e uomini scalzi, donne bellissime, colori sgargianti. Tutto questo nei due passi che facciamo a piedi verso il Tempio si amplifica. Banchini di fiori e ghirlande, montagne di cocco e frutta fresca, bici, tante bici, spezie… prima di entrare ci togliamo le scarpe e le lasciamo in quel deposito che sa tanto di campo di concentramento.
I templi del sud sono molto diversi da quelli del nord, sono ampi, vere e proprie cittadelle per estensione. Ricordano molto i nostri castelli e castellari medievali, fatti di torri di ingresso, cinte murarie e canali d’acqua. È una suggestione confermata dalla funzione di rifugio che avevano durante gli assedi. Gli accessi nelle direzioni dei 4 punti cardinali sono segnate dai gopuram, torri altissime, dalla base quadrata e sviluppo piramidale, che notte tempo venivano illuminate ed avevano funzioni di faro per i viandanti. Nei recinti, prakara, si aprono gli ingressi a corti concentriche che racchiudono vari edifici dalle funzioni svariate, cucine, stalle, alloggi, oltre ai templi secondari e al santuario centrale sormontato dal vimana, copertura piramidale. Quest’ultimo sormonta il luogo più sacro del tempio, il garbhagriha, cella cubica e spoglia che custodisce la divinità.
Questo tempio è dedicato a Shiva. Le decorazioni dei gopura sono stupefacentemente colorate e accese, contrastanti con la luce altrettanto incredibile del cielo e della luna. Ritorna spesso l’immagine del pavone. Ricordo, secondo il mito qui si deve essere consumato il perdono di Shiva verso Parvati, che venne liberata dalla forma di pavone in cui egli stesso l’aveva incarnata. Divinità bizzarre quelle indiane, almeno quanto quelle del cartoon Polloc. Shiva è geloso della consorte che lo aveva trascurato per ammirare un pavone, la trasforma nel vanesio animale e poi, sofferente per la sua mancanza e pagato dall’esercizio ascetico della sua consorte energia, l’abbia ricondotta nella sua forma.
Non entriamo nel garbhagriha perché troppo affollato, e lo circumnavighiamo dall’esterno, chiaccherando con chi ci viene incontro incuriosito. Tutt’intorno al santuario principale piccoli templi con altre divinità o lingam e yoni, origine di tutto. Prima di uscire prendiamo la nostra prima benedizione dal brahamana che accoglie con un sorriso le nostre ghirlande.
L’emozione non è più la stessa, l’aspettativa di quei forti impulsi mi porta spesso alla mente la domanda: “ma avrò fatto bene?”. per non lasciarmi sconfortare cado nell’assaggio delle prime delizie indigene, aperitivo fatto con mix di mango ed ananas con masala spice nel cartoccio di quotidiano hindu. Niente male, lo riproporrò! … ricetta doc, affogare quesiti nel cibo. Ed è così che mi trovo con Massimo a concordare il menù di natale con lo chef del Grt Regency Hotel di Chennay. Una selezione di piatti conosciuti, jeesa rice, birmani vegetariano, masala dal, tandory chicken, paneer qualcosa, e lassi, immancabile.
Come immancabile è il panettone, Il nostro Frank ha visto bene di farci venir voglia di casa con un mini panettoncino di Pinerolo, Galupqualcosa, nel quale abbiamo tutti immerso le dita per poi leccarcele avidamente.
* I samosa sono diversi dai pakora, i primi sono fagottini i secondi sono verdure a fette fritte.
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Al baretto dell’aeroporto cedo a quello che non ho potuto fare all’alba al Tempio, mangio samosa*, fagottini dorati di verdura fritti in una pastella croccante e friabile, ovviamente ben conditi di spezie. Dal seggiolino del volo interno, riesco a malapena a scambiare due parole con iniziaconEmanonricordoilnome per poi addormentarmi ininterrottamente, fino a quando la squadra di calcetto dei figli del mio vicino di seggiolino non hanno iniziato a stranazzare. Rientro in me solo quando metto i piedi sulla scalette dell’aereo e tocco sulla pelle i 25 gradi dell’aria del sud. I miei piedi nudi dentro le ciabattine estive riprendono un colore vitale e gustano, come una premiata ricompensa dopo il freddo dell’aria condizionata, il tepore naturale di un inverno all’equatore. Madras, Chennay, ci siamo finalmente!
All’autobus altri due compagni di viaggio, lei, soprannominata immediatamente Hilton, conseguentemente alla sua prima parola in apprezzamento sugli standard di pulizia negli alberghi, lui, Frank, ci recupera con il classico cartellino da autista in cerca di polli prenotati.
Ricarichiamo tutto sul bus e partiamo per il primo tempio, il Kapalishvara Mandir a Mylapore. Ho letto qualcosa sulla guida, ma non ricordo cosa… lungo la strada ritrovo quello che è il mio concetto d’India, mucche, baracche e dissesto dignitoso, famiglie intere in motorino, negozi sulla strada, banchini improvvisati che vendono di tutto, vita nei fiumi, clacson e Ambassador, richshaw e uomini scalzi, donne bellissime, colori sgargianti. Tutto questo nei due passi che facciamo a piedi verso il Tempio si amplifica. Banchini di fiori e ghirlande, montagne di cocco e frutta fresca, bici, tante bici, spezie… prima di entrare ci togliamo le scarpe e le lasciamo in quel deposito che sa tanto di campo di concentramento.
I templi del sud sono molto diversi da quelli del nord, sono ampi, vere e proprie cittadelle per estensione. Ricordano molto i nostri castelli e castellari medievali, fatti di torri di ingresso, cinte murarie e canali d’acqua. È una suggestione confermata dalla funzione di rifugio che avevano durante gli assedi. Gli accessi nelle direzioni dei 4 punti cardinali sono segnate dai gopuram, torri altissime, dalla base quadrata e sviluppo piramidale, che notte tempo venivano illuminate ed avevano funzioni di faro per i viandanti. Nei recinti, prakara, si aprono gli ingressi a corti concentriche che racchiudono vari edifici dalle funzioni svariate, cucine, stalle, alloggi, oltre ai templi secondari e al santuario centrale sormontato dal vimana, copertura piramidale. Quest’ultimo sormonta il luogo più sacro del tempio, il garbhagriha, cella cubica e spoglia che custodisce la divinità.
Questo tempio è dedicato a Shiva. Le decorazioni dei gopura sono stupefacentemente colorate e accese, contrastanti con la luce altrettanto incredibile del cielo e della luna. Ritorna spesso l’immagine del pavone. Ricordo, secondo il mito qui si deve essere consumato il perdono di Shiva verso Parvati, che venne liberata dalla forma di pavone in cui egli stesso l’aveva incarnata. Divinità bizzarre quelle indiane, almeno quanto quelle del cartoon Polloc. Shiva è geloso della consorte che lo aveva trascurato per ammirare un pavone, la trasforma nel vanesio animale e poi, sofferente per la sua mancanza e pagato dall’esercizio ascetico della sua consorte energia, l’abbia ricondotta nella sua forma.
Non entriamo nel garbhagriha perché troppo affollato, e lo circumnavighiamo dall’esterno, chiaccherando con chi ci viene incontro incuriosito. Tutt’intorno al santuario principale piccoli templi con altre divinità o lingam e yoni, origine di tutto. Prima di uscire prendiamo la nostra prima benedizione dal brahamana che accoglie con un sorriso le nostre ghirlande.
L’emozione non è più la stessa, l’aspettativa di quei forti impulsi mi porta spesso alla mente la domanda: “ma avrò fatto bene?”. per non lasciarmi sconfortare cado nell’assaggio delle prime delizie indigene, aperitivo fatto con mix di mango ed ananas con masala spice nel cartoccio di quotidiano hindu. Niente male, lo riproporrò! … ricetta doc, affogare quesiti nel cibo. Ed è così che mi trovo con Massimo a concordare il menù di natale con lo chef del Grt Regency Hotel di Chennay. Una selezione di piatti conosciuti, jeesa rice, birmani vegetariano, masala dal, tandory chicken, paneer qualcosa, e lassi, immancabile.
Come immancabile è il panettone, Il nostro Frank ha visto bene di farci venir voglia di casa con un mini panettoncino di Pinerolo, Galupqualcosa, nel quale abbiamo tutti immerso le dita per poi leccarcele avidamente.
* I samosa sono diversi dai pakora, i primi sono fagottini i secondi sono verdure a fette fritte.
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