12 febbraio 2007

UN FILO D'INDIA A SUD. Quel flipper della turca... (prima parte)


25 dicembre 06. Kancipuram.
La luce della mattina in India è qualcosa di particolare. Non so come mai ma, quando la percepisco, entra sempre, miracolosamente, da destra, invade la camera irradiando timidamente di un colore giallo pallido, rispettosa del morbidezza del sonno. Questa mattina però, è preceduta da un irriverente suono ritmico, mitragliate. Sono iniziate prestissimo e ne scopriamo la provenienza solo quando l’occhio scende dai lontani orizzonti e cade nel retro del cortile dell’albergo: diversi uomini erano intenti nel retro cucina a tagliare verdure, e lo erano stati già, dalle prime ore dell’alba.
- Rouge, quella sarà la nostra colazione!
Scendo al banchetto accompagnata dalla danza dei nostri sms che rimbalzano da due capi del mondo, ignorando il fuso orario. Riconosco che per l’ora e la distanza sono stata troppo ermetica, cerco per quanto possibile di spiegarmi in ultimo lungo sms e spengo il telefono, considerando che potrei lasciarti dormire visto che da te è notte fonda.
La colazione non prevede quelle verdurine tagliate fini fini sulle piastrelle del retrocucina, o forse sì, se fossi stata in grado di chiedergli quella prelibatezza indiana. Pago la mia ignoranza con pane e marmellata, e le petulanti lamentele della Sciura compagna di viaggio che a quanto pare, non era preparata alle pause indigene.
Il primo tempio della mattina è l’Ekambareshvara Mandir di Kancipuram, chiamata velocemente Kanchi. L’autobus ci lascia poco lontano ed entriamo con le scarpe ai piedi. Dal gopuram d’ingresso alla sala colonnata c’è un ampio pezzo di sterrato. Ci viene incontro un giovane brahamana grassoccio, con due enormi occhi verde cangianti ed un sorriso incurante del mondo. Si chiama Narayana. Come il figlio di Ajamila della storia che mi ha dato Massimo, tratta dal sesto canto del Bhagavata Purana. Nara significa uomo e yana viaggio. Pronunciando il nome del figlio il padre, durante la sua vita peccaminosa, si salva davanti agli occhi di Yama, dio della morte. E sia chiaro... è solo una delle storie, indagare sull’etimologia, il significato del mondo significa entrare nell’intrica ed affascinantissima mitologia religiosa indiana.
Lasciamo le scarpe nell’immediata vicinanza del complesso ad una signora con un dente solo impegnato nel masticare le foglie di betel, quelle che ti fanno diventare labbra e gengive rosse. Il tempio è vastissimo. Siamo accolti sotto la kalyana mandapa, la sala dalle mille colonne, almeno questo è il nome, ma le colonne non sono certo tante. È ospitato qui con noi, Nandi, il toro veicolo di Shiva, che c'indica chiaramente a chi è votato il tempio. Lo spazio è stretto, le colonne non sono distanti tra loro che più di 2/2,5 mt., le misure di un architrave in pietra. Oltre la vasca per le abluzioni, la tirtha. È enorme, l’acqua è verde e qualche forma umana la contorna sempre, uomini a bagno, donne che lavano gli indumenti, chi indugia a guardare l’acqua o a pasturare i pesci. Narayana ci accompagna dentro, varchiamo un grande portone di legno. Ci troviamo in un ambiente ampio, costituito da un percorso dal tracciato quadrato costeggiato da portici rialzati e coperti. Percorrendolo ci conduce al santuario vero e proprio, dove è custodito un prithivi-linga (linga è il simbolo del maschile in questo caso di terra). Riceviamo qui la nostra prima benedizione, giriamo intorno al fallo e il brahamana ci mette la campana in testa benedicendoci pronunciando il nostro nome. Continuiamo il percorso quadrato sul quale si affacciano numerosi tempietti. I brahamana del tempio, siamo sull’ordine di 50 famiglie in questo tempio, ci precedono con le loro liturgie. Arriviamo in un cortile interno che racchiude il veneratissimo albero di mango. Veneratissimo perché sembra che qui, Shiva, abbia concesso il perdono a Parvati, che scherzosamente gli aveva chiuso gli occhi con le mani, voleva giovare insomma, senza pensare che avrebbe messo nell’oscurità il genere umano. Sciocca femmina! Comunque, tutti i pellegrini salgono, girano interno, lo toccano, e ricevono un’altra benedizione, con terra grigia che si strofinano sulla fronte. Sembra che l’albero abbia potere di garantire sicura fertilità e perdono. Io lo guardo e chiedo solo comprensione per quegli sciocchi e eccessivamente dotti sms. Ma il mio telefono è silente.

Da qui ripartiamo per un altro tempio, sempre shivaita, il Kailashanath Mandir. Ancora prima di scendere dall’autobus ci accolgono i venditori di ogni bene, ragazzini dalle gambine secche ma dalla testa fina, che sanno come lavorarsi un turista, strappandogli un sorriso. Entriamo nel cancello di recinzione del tempio salvandoci con un “dopo, dopo” che le creature già anticipano, avendolo imparato da chi sa quanti prima di noi. Questo luogo è diverso dagl’altri, è più piccolo. Leggiamo la guida: “dedicato a Shiva, signore del monte Kailasha… voluto da xxx detto Rajasimba, leone tra i re, nel 700 d.c.” - lo stesso che edificherà lo Shore Temple che vedremo domani – “esempio significati di architettura dravidica”. Lasciamo le scarpe direttamente nel tempio, il vano di accesso, appena dentro le mura, è piccolo, come calcolabilmente ridotto rispetto al precedente è il tempio. Dal cortile si vede al centro l’unico edificio sacro aperto su di un lato con un portico che non conduce dentro. L’accesso è laterale e porta in un vano buio, dove se riuscissi a vedere qualcosa, metterei a fuoco la divinità. Ma vedo solo un enorme ghirlanda di fiori che ad occhio e croce, avrà un diametro di 20 cm e non oso pensare la lunghezza. Io non ho parole, sembra che qui i fiori non deperiscano. Percorriamo il percorso a ridosso del muro di cinta ammirando le sculture del VIII sec. in parte, si leggono delle stuccature. Rimango incantata da una Durga sulla tigre. Ho letto che a sud, molto più che a nord, sono venerate divinità femminili, questa energia di Shiva dalla forma terribile in particolare.
Prima di andarcene, facciamo una ‘azzata terribile. Avevo portato una serie di cappellini gadget per dare alle creature che ti chiedono sempre qualcosa. Quello non era il momento, ma l’abbiamo capito dopo. Sono apparsi diversi bell’imbusti che hanno preso i beretti ai più piccoli. Mai più una cosa del genere.

Prima di fare la terza visita al primo tempio visnuita - raro al sud, dove il culto principale è del divino Shiva, re della materia nella trimurti induista - si presentava necessario espletare un'esigenza fisiologica, mia, e di altre quattro compagne di viaggio. Bene, dato l’impossibilità di trovare luogo per scendere in campo, MassimoGuruMamma, ci monta con l’autista del bus su due tuc tuc, che ci portano ad un bagno. Ma, dire che siamo scettiche è poco. Questi apitti indiani sono infernali, guizzano come pazzi nel traffico, frenano all’ultimo tuffo e suonano il clacson in continuazione. Ci ferma davanti ad un negozio e ci fa incamminare verso un lungo e stretto corridoio all’aperto, dove sono abbandonate delle bici. Entriamo in una stanza dove c’è un telaio e un uomo che tesse. Dovevamo avere la pipì a livelli da ottusione mentale per non capire che quello sarebbe stato il negozio dove la guida, ci avrebbe portato in seguito. Bene, diligentemente in fila, facciamo i nostri bisogni in due settori, quelli per il water e quelli per la turca. A me tocca quest’ultima, ed in coda alla fila. Appena giungo in postazione, dal mio professionale gilet un po' fotografo, un po' Sampei, esce il cellulare, dal quale attendevo ancora risposte. Questo esserino inanimato prende il via e si dirige diritto diritto al suolo, attratto da quella terrificante forza che è la gravità. Dato che la mia posizione era precisa accademicamente scelta per far pipì, il cellulare mira la turca e rimbalza istericamente, come la pallina di un flipper colpito con tanto di sobbalzo d’anca, prima a destra, poi a sinistra, ancora a destra ed infine raggiunge il nero centro dello scarico. In un nano secondo rifletto: sopporto lo schifo della mano immersa, o la sofferenza del dileguato contatto con te? La prima che hai detto! La mia mano si immerge nella pipì di quelli che l'hanno fatta prima di me, per cogliere subito il naufragato attrezzo. Solo la paura dell’isolamento mi spinge a chiedere aiuto e a passare alla cunese madre sprint, il cellulare spiegandole l’accaduto, scusandomi ripetutamente. Non potendo fare altrimenti, nelle condizioni in cui ero. ... e non avevo ancora fatto quell'impellente pipì.
Dramma! Come facevo ad avere tue notizie adesso? e poi quegli sms in sospeso? Magari tu, adesso, stavi attendendo una risposta che non arrivava?!
Me pasticciona! Le domande mi annebbiavano la mente e non mi davano capacità reattive.

Continua…