25 dicembre 06. Kancipuram. L’unica cosa che riesco a fare, dopo il salvataggio dell’aggeggio muto, è di passare a madre e figlia che mi hanno soccorso e rincuorato, il disinfettante gel che avevo in borsa e ringraziarle ripetutamente. Le seguo come un’automa, ormai insensibili ai sobbalzi del tuc tuc, alle petulanze dei venditori fuori dal tempio. Che stato d’animo di xxrda! Non ci posso crede. Il secondo giorno di ferie, primi attriti della distanza di questa relazione ai primi passi che corro il rischio di stroncare definitivamente con questo mio viaggio e che ti combini? Infilo il cellulare nel cesso!
Tempio simili ai precedenti, il Varada Raja Perumal Mandir. Passiamo sotto il gopuram di ingresso e ci troviamo in un ampio spazio che lascia traguardare tutto: colonna centrale, tirtha, sala delle colonne e santuario. Mi trascino dentro la sala delle colonne, raggiungo gli altri. È bella, ma la verità è che non mi importa niente di queste nere sculture cesellate. Ho l’aria distratta e nonostante questo un falso brahamana mi chiama con un gesto, cerco di essere gentile, ma con la sua costanza riesce a trascinarmi dietro di lui per farmi vedere i dettagli da turista, falli enormi, Deva dasi succinte, e altre cose che non capisco. Gentile, cerco di essere gentile, ma l’unica cosa che capisce è la banconota. Cedo poche rupie per liberarmene. Raggiungo gli altri, scatto qualche foto. Le foto cominciano a farmi stare meglio, anche se questa nuova macchina digitale non la so pilotare ed è un continuo guardare nello schermo. Forse è questo che mi distrae. Non possiamo accedere al santuario in quanto non hindu. Ci sediamo all’ombra, sui gradini della vasca. Ci riuniamo pressappoco. Il più giovane del gruppo, Febbo, prova il lavaggio della camicia nella tirtha raccogliendo gli sguardi interessati delle signore indiane. Donne mature con bambine piccole, arrivate a fianco a noi al grido di “can touch to you?” o qualcosa di simile.
- Eh? Mi vuole toccare?
Allungo le mani alla bimba e questa si ritrae timida e vergognosa dietro la madre, ma basta poco perché anche lei allunghi le sue piccole e pittate manine verso di me. Lunghi sorrisi, qualche parola ed è già un invito a casa.
- Piccola come vorrei, ma siamo in gruppo non mi posso staccare.
Uff! Occasione mancata di farmi fare quegli splendidi disegni con l’henne che hanno, madre e figlia sulle mani. È da quest’estate che desidero averli. Mi accerto, come già supponevo, che non esistono luoghi, estetiste o quant’altro che li fanno a pagamento. È una attività che alimenta quella consorteria femminile che vive solo e ancora nel così detto terzo mondo e che invece, nella cultura contemporanea, è dannosamente sparita.
Ora dopo il sorriso della piccola, riesco a respirare sopra i miei drammi. Il segno evidente dell’inizio del recupero dopo l’apnea, è l’acquisto di un paio di ciabatte di pelle fuori dal tempio. Non potevo non comprarle! Giuro! Quell’uomo mi ha aspettato dopo avermi visto entrate, mi ha messo al piede un paio di scarpe del MIO numero esatto e per 300 rupie, circa 6 euro, mi ha dato un paio di infradito di vera pella cucite a mano. Come potevo non comprarle!
Durante la visita la negozio di stoffe, scena del delittuoso evento, partecipo poco al mercanteggio per seta e pasmine, riesco a fumare e bere masala chai, pensando un po’ più lucidamente. Le opzini sono due: uno) se il telefono riparte non sarà immediatamente, ma da asciutto, quindi, non rimane che aspettare, avvisare il mio panzerottino dell’incidente e prospettargli una soluzione per l’eventualità che la prima non si avveri. Quindi, due) in tutta l’India sono tantissimi i baracchini ISD per telefonare, non ci saranno intoppi di comunicazione ci sentiremo spesso, molto spesso, perché è quello che voglio anch’io, non posso stare senza sentirti tesoro!
Assaporo già il tuo giustificato malumore. E così è, dopo un frettoloso sms dal cellulare dell’Omonima, dopo una ricerca vana degli ISD anche lungo il tragitto in autobus, mi faccio prestare il telefono indiano dal Guru e riesco a mettermi in contatto con te. Io sull’autobus in mezzo a tutti, tu dall’altra parte del mondo incredulo, escono dalle nostre bocche poche parole che non aiutano. Il magone che mi porto dietro aumenta, il disagio di questa vacanza pure. Cosa ci faccio io qui? Le domande mi affogano nel sonno.
Quando mi sveglio l’aria è diversa, il paesaggio diverso, strade da grande percorrenza, brezza marina, l’oceano vicino. Passiamo sopra a degli specchi d’acqua ed arriviamo quasi al tramonto a Mamallapuram, in un luogo, a giudicare dall’affollamento, molto turistico. Ma non troviamo tedeschi in braghe di tela e birki’s, sono tutti indiani, coloratissimi indiani in vacanza. Scendiamo e di nuovo la dannosa esigenza fisiologica. Chiappiamo uno dei ragazzi che vende elefanti di pietra e ci facciamo accompagnare in un folto gruppo, che come comun denominatore di tutte le escursioni alla toilete, ha la Tina, la sorella di Febbo. Tra il sonno e la disperazione di non essere telefonomunita, ho il mento sotto i piedi. Mi sforzo di sorridere, ma mi sento un cencio. Fatta tutte, ci avviciniamo all’ingresso della zona archeologica, attraversando un frastornato esodo di turisti. Siamo a I cinque ratna, sono un gruppo di templi monolitici mai consacrati che per essere cinque sono stati identificati con i fratelli Pandava e la loro unica moglie Draupadi, protagonisti del Mahabarata, il maggiore poema epico indiano. Inutile dire che non mi emozionano, pietra logorata dal vento che traspira antichità, ma pietra. Aspetto il tramonto che mi sfugge all’obbiettivo, macchina che non mi obbedisce.
Qualcuno mi pesta l’alluce, che così ho fatto bingo?
Passerà, dai che passerà! C’è solo da riposizionarla per il verso giusto questa vacanza, anche perché così tanti giorni torti non sono una gran bella cosa, aggiustala che non succede mai nulla per caso. È karma, direbbe qui, e lo penso anch’io.
Dopo un’ulteriore visita alle toilette, occidentalmente gestite da una simpatica signora, ripartiamo ed io perdo ancora conoscenza nel sonno. Mi sveglio in città, Mamalapuram, marittima e turistica, per occidentali: negozi aperti, vestiti da hippy, gioielli vistosi e ISD e punti internet. La mia salvezza!
Arriviamo in quello che sembra un albergo carino, hindy, ma carino. Dov’è l’inganno? Non hanno sufficienti camere per noi. Cosa faremo? Bho. Attendiamo e nell’attesa girovaghiamo per il paese. Telefoni tutti occupati, arriviamo in spiaggia, l’oceano. Turistica ma carina, baretti e ristoranti acchiappa Yankee con lucine di natale. Ci sediamo in cerchio a fumare una sigaretta guardando il mare. Non siamo ancora una compagnia affiatata e la conversazione langue. Ce la faremo mai ad affiatarci? A volte mi appaiono tanto diversi da me, i miei compagni di viaggio. Calpestando questi pensieri, mi si avvicina un uomo magro, vestito con un dothi a quadri, con una bambina piccola, nuda, solo con la maglietta, ma senza mutandine. Mi chiede con impaccio una sigaretta e poi ci parliamo, tra gesti e poche parole. Mi dice di essere uno scultole, lavora la pietra, sua figlia a 4 anni. Ricordo che Massimo ci ha anticipato che una caratteristica di questo villaggio è la lavorazione della pietra. È un uomo modestissimo anche nella carne, asciutto e muscoloso quel necessario al lavoro, l’abbigliamento minimalista. La figlia gli si accovaccia addosso, coprendosi gli occhi con le mani, per noia, per timidezza, per sonno. È buio e l’oceano non si vede, si sente solo il rumore, oltre la barriera di barche dormienti. I miei compagni di viaggio non sono interessati al mio amico scalpellino e non alimentano la nostra conversazione. Ci salutiamo, le mani al naso, la testa china, namasté, un buffetto alla piccola e ritorniamo sui nostri passi.
I miei terminano prima, alla cabina dell’ISD, estraggo l’agendina decisa a far funzionare quell’apparecchio e sentire la tua voce. Il dubbio è sui prefissi, come procedere? Devono esser messi tutti ‘sti zeri? Ma si tratta al massimo di andare per tentativi. Poi ecco che prende la linea e il momento è magico. Un primo attimo per riprenderci dalla sorpresa, dall’emozione, dalla sete di sentirci e quello che esce da quel filo sono parole dolci, d’amore, di comprensione e di dialogo. Niente al mondo mi poteva far stare così bene, se non la tua voce e quelle parole colme d’affetto.
Riesco addirittura a ricordarmi di avere una famiglia e degli amici da avvisare. Il numero di mio padre sull’agenda è sbaglio, importuno più volte una signora. I neuroni rientrano in circolo e ricordo a mente il numero di mia zia, loro vicina di casa in Umbria. La zia è già informata del dramma della mancata comunicazione di Natale e all’altro capo del mondo, la sento urlare dalla finestra - Lilià, Lilià - per chiamare mia madre e avvisare tutto il paese della chiamata internazionale.
- Zia, richiamo tra 10 minuti, tranquilla.
Faccia come il xulo, sfoggio serenità.
Nell'attesa, mastico sigarette e sfrutto il collegamento con l’occidente, avviso il mio amicofratello, o almeno ci provo, e richiamo la mamma, facendo i miei doveri di figlia.
Ma adesso sono in pace con il mondo intero, dopo che ti ho sentito amoremiobello, riesco a gioire della sistemazione in quadrupla, a non reagire all’epiteto di zittella che mi ha affibbiato la Sciura con cui divido la stanza, e a godermi l’abbondante cena a buffet fatta di specialità indiane e sottofondo d’oceano.
post successivo
Tempio simili ai precedenti, il Varada Raja Perumal Mandir. Passiamo sotto il gopuram di ingresso e ci troviamo in un ampio spazio che lascia traguardare tutto: colonna centrale, tirtha, sala delle colonne e santuario. Mi trascino dentro la sala delle colonne, raggiungo gli altri. È bella, ma la verità è che non mi importa niente di queste nere sculture cesellate. Ho l’aria distratta e nonostante questo un falso brahamana mi chiama con un gesto, cerco di essere gentile, ma con la sua costanza riesce a trascinarmi dietro di lui per farmi vedere i dettagli da turista, falli enormi, Deva dasi succinte, e altre cose che non capisco. Gentile, cerco di essere gentile, ma l’unica cosa che capisce è la banconota. Cedo poche rupie per liberarmene. Raggiungo gli altri, scatto qualche foto. Le foto cominciano a farmi stare meglio, anche se questa nuova macchina digitale non la so pilotare ed è un continuo guardare nello schermo. Forse è questo che mi distrae. Non possiamo accedere al santuario in quanto non hindu. Ci sediamo all’ombra, sui gradini della vasca. Ci riuniamo pressappoco. Il più giovane del gruppo, Febbo, prova il lavaggio della camicia nella tirtha raccogliendo gli sguardi interessati delle signore indiane. Donne mature con bambine piccole, arrivate a fianco a noi al grido di “can touch to you?” o qualcosa di simile.
- Eh? Mi vuole toccare?
Allungo le mani alla bimba e questa si ritrae timida e vergognosa dietro la madre, ma basta poco perché anche lei allunghi le sue piccole e pittate manine verso di me. Lunghi sorrisi, qualche parola ed è già un invito a casa.
- Piccola come vorrei, ma siamo in gruppo non mi posso staccare.
Uff! Occasione mancata di farmi fare quegli splendidi disegni con l’henne che hanno, madre e figlia sulle mani. È da quest’estate che desidero averli. Mi accerto, come già supponevo, che non esistono luoghi, estetiste o quant’altro che li fanno a pagamento. È una attività che alimenta quella consorteria femminile che vive solo e ancora nel così detto terzo mondo e che invece, nella cultura contemporanea, è dannosamente sparita.
Ora dopo il sorriso della piccola, riesco a respirare sopra i miei drammi. Il segno evidente dell’inizio del recupero dopo l’apnea, è l’acquisto di un paio di ciabatte di pelle fuori dal tempio. Non potevo non comprarle! Giuro! Quell’uomo mi ha aspettato dopo avermi visto entrate, mi ha messo al piede un paio di scarpe del MIO numero esatto e per 300 rupie, circa 6 euro, mi ha dato un paio di infradito di vera pella cucite a mano. Come potevo non comprarle!
Durante la visita la negozio di stoffe, scena del delittuoso evento, partecipo poco al mercanteggio per seta e pasmine, riesco a fumare e bere masala chai, pensando un po’ più lucidamente. Le opzini sono due: uno) se il telefono riparte non sarà immediatamente, ma da asciutto, quindi, non rimane che aspettare, avvisare il mio panzerottino dell’incidente e prospettargli una soluzione per l’eventualità che la prima non si avveri. Quindi, due) in tutta l’India sono tantissimi i baracchini ISD per telefonare, non ci saranno intoppi di comunicazione ci sentiremo spesso, molto spesso, perché è quello che voglio anch’io, non posso stare senza sentirti tesoro!
Assaporo già il tuo giustificato malumore. E così è, dopo un frettoloso sms dal cellulare dell’Omonima, dopo una ricerca vana degli ISD anche lungo il tragitto in autobus, mi faccio prestare il telefono indiano dal Guru e riesco a mettermi in contatto con te. Io sull’autobus in mezzo a tutti, tu dall’altra parte del mondo incredulo, escono dalle nostre bocche poche parole che non aiutano. Il magone che mi porto dietro aumenta, il disagio di questa vacanza pure. Cosa ci faccio io qui? Le domande mi affogano nel sonno.
Quando mi sveglio l’aria è diversa, il paesaggio diverso, strade da grande percorrenza, brezza marina, l’oceano vicino. Passiamo sopra a degli specchi d’acqua ed arriviamo quasi al tramonto a Mamallapuram, in un luogo, a giudicare dall’affollamento, molto turistico. Ma non troviamo tedeschi in braghe di tela e birki’s, sono tutti indiani, coloratissimi indiani in vacanza. Scendiamo e di nuovo la dannosa esigenza fisiologica. Chiappiamo uno dei ragazzi che vende elefanti di pietra e ci facciamo accompagnare in un folto gruppo, che come comun denominatore di tutte le escursioni alla toilete, ha la Tina, la sorella di Febbo. Tra il sonno e la disperazione di non essere telefonomunita, ho il mento sotto i piedi. Mi sforzo di sorridere, ma mi sento un cencio. Fatta tutte, ci avviciniamo all’ingresso della zona archeologica, attraversando un frastornato esodo di turisti. Siamo a I cinque ratna, sono un gruppo di templi monolitici mai consacrati che per essere cinque sono stati identificati con i fratelli Pandava e la loro unica moglie Draupadi, protagonisti del Mahabarata, il maggiore poema epico indiano. Inutile dire che non mi emozionano, pietra logorata dal vento che traspira antichità, ma pietra. Aspetto il tramonto che mi sfugge all’obbiettivo, macchina che non mi obbedisce.
Qualcuno mi pesta l’alluce, che così ho fatto bingo?
Passerà, dai che passerà! C’è solo da riposizionarla per il verso giusto questa vacanza, anche perché così tanti giorni torti non sono una gran bella cosa, aggiustala che non succede mai nulla per caso. È karma, direbbe qui, e lo penso anch’io.
Dopo un’ulteriore visita alle toilette, occidentalmente gestite da una simpatica signora, ripartiamo ed io perdo ancora conoscenza nel sonno. Mi sveglio in città, Mamalapuram, marittima e turistica, per occidentali: negozi aperti, vestiti da hippy, gioielli vistosi e ISD e punti internet. La mia salvezza!
Arriviamo in quello che sembra un albergo carino, hindy, ma carino. Dov’è l’inganno? Non hanno sufficienti camere per noi. Cosa faremo? Bho. Attendiamo e nell’attesa girovaghiamo per il paese. Telefoni tutti occupati, arriviamo in spiaggia, l’oceano. Turistica ma carina, baretti e ristoranti acchiappa Yankee con lucine di natale. Ci sediamo in cerchio a fumare una sigaretta guardando il mare. Non siamo ancora una compagnia affiatata e la conversazione langue. Ce la faremo mai ad affiatarci? A volte mi appaiono tanto diversi da me, i miei compagni di viaggio. Calpestando questi pensieri, mi si avvicina un uomo magro, vestito con un dothi a quadri, con una bambina piccola, nuda, solo con la maglietta, ma senza mutandine. Mi chiede con impaccio una sigaretta e poi ci parliamo, tra gesti e poche parole. Mi dice di essere uno scultole, lavora la pietra, sua figlia a 4 anni. Ricordo che Massimo ci ha anticipato che una caratteristica di questo villaggio è la lavorazione della pietra. È un uomo modestissimo anche nella carne, asciutto e muscoloso quel necessario al lavoro, l’abbigliamento minimalista. La figlia gli si accovaccia addosso, coprendosi gli occhi con le mani, per noia, per timidezza, per sonno. È buio e l’oceano non si vede, si sente solo il rumore, oltre la barriera di barche dormienti. I miei compagni di viaggio non sono interessati al mio amico scalpellino e non alimentano la nostra conversazione. Ci salutiamo, le mani al naso, la testa china, namasté, un buffetto alla piccola e ritorniamo sui nostri passi.
I miei terminano prima, alla cabina dell’ISD, estraggo l’agendina decisa a far funzionare quell’apparecchio e sentire la tua voce. Il dubbio è sui prefissi, come procedere? Devono esser messi tutti ‘sti zeri? Ma si tratta al massimo di andare per tentativi. Poi ecco che prende la linea e il momento è magico. Un primo attimo per riprenderci dalla sorpresa, dall’emozione, dalla sete di sentirci e quello che esce da quel filo sono parole dolci, d’amore, di comprensione e di dialogo. Niente al mondo mi poteva far stare così bene, se non la tua voce e quelle parole colme d’affetto.
Riesco addirittura a ricordarmi di avere una famiglia e degli amici da avvisare. Il numero di mio padre sull’agenda è sbaglio, importuno più volte una signora. I neuroni rientrano in circolo e ricordo a mente il numero di mia zia, loro vicina di casa in Umbria. La zia è già informata del dramma della mancata comunicazione di Natale e all’altro capo del mondo, la sento urlare dalla finestra - Lilià, Lilià - per chiamare mia madre e avvisare tutto il paese della chiamata internazionale.
- Zia, richiamo tra 10 minuti, tranquilla.
Faccia come il xulo, sfoggio serenità.
Nell'attesa, mastico sigarette e sfrutto il collegamento con l’occidente, avviso il mio amicofratello, o almeno ci provo, e richiamo la mamma, facendo i miei doveri di figlia.
Ma adesso sono in pace con il mondo intero, dopo che ti ho sentito amoremiobello, riesco a gioire della sistemazione in quadrupla, a non reagire all’epiteto di zittella che mi ha affibbiato la Sciura con cui divido la stanza, e a godermi l’abbondante cena a buffet fatta di specialità indiane e sottofondo d’oceano.
post successivo